Desiderio d’aggregazione…

filo d'erbaDall’atomo alla libertà e spiritualità dell’uomo c’è un unico filo conduttore: il desiderio di aggregazione. Ecco perché, nella vita, anche d’un filo d’erba, si può rintracciare il divino. Questa vita: conoscerla, nutrila, proteggerla è il titolo del libro che sta per uscire (il prossimo 23 aprile per Garzanti), di Vito Mancuso , noto teologo e scrittore, che sarà a Rovereto (oggi alle 17, Teatro Rosmini , per la VI edizione di «Educa» che si apre oggi). Gli abbiamo chiesto qualche anticipazione.

«La filosofia della vita nella cultura dominante, l’evoluzionismo neodarwinista, parla di selezione naturale. Nel mio libro non nego questo dato: noto però che affinché qualcosa possa essere oggetto di selezione, prima di tutto deve esistere. La logica secondo cui gli enti vengono all’esistenza è quella aggregativa. Vale per tutti i fenomeni: già a partire dall’aria che respiriamo, unione di azoto e ossigeno. Gli stessi atomi sono aggregazioni. Qualsiasi cosa che venga all’essere è il frutto di una logica aggregativa. Ci sono chiaramente momenti di disgregazione, però sono sempre funzionali ad un’aggregazione maggiore. Fin dall’apparizione della vita dalla materia inerte, fino all’intelligenza dell’uomo e infine alla libertà. Ossia la dimensione dello spirito che permette alle persone di discutere, filosofare, indagare, amare».

Lei verrà a parlare di educazione: quella dimensione spirituale che lei indica come il vertice della vita, non le sembra sempre più lontana dal mondo dei giovani e dalla cultura dominante?

«Nei giovani, e non solo, vedo un rifiuto delle categorie tradizionali. Esiste una difficoltà a recepire l’impostazione religiosa classica assieme alla visione del mondo dalla scienza e dalla filosofia. Le persone che, nonostante tale divario, si dichiarano ancora credenti, spesso lo fanno con un senso di disagio misto a insicurezza. Quando si riesce invece a conciliare la prospettiva di fede con ciò che la cultura dominante propone, la possibilità di raccordare tensione spirituale e visione del mondo, nasce un grande interesse. I giovani avvertono una ricerca autentica quando non si impone loro un principio di autorità, ma piuttosto uno spirito d’indagine simile a quello della scienza attuale. La sete di spiritualità ci sarà sempre: l’uomo consiste in questo. Quando la si concilia con la scienza allora c’è una grande festa della mente. Vedo nascere gioia e una luce particolare negli occhi di chi intravede dei percorsi. Si tratta semplicemente di rintracciare piste plausibili, rinnovando fortemente il linguaggio».

La conoscenza, l’educazione, passa necessariamente attraverso la dimensione affettiva? L’amore genera conoscenza?

«Senza eros la conoscenza non avviene. Vale per tutti. Si conosce veramente ciò che si ama e si ama solo ciò che si conosce veramente. Rileggendo l’etica di Spinoza si capisce chiaramente: da un lato l’essenza dell’uomo è il desiderio. Dall’altra esiste la volontà di porre la ragione matematica come canone ultimo. Cos’è vero? L’una e l’altra cosa: noi siamo conoscenza e affettività unite. Dio stesso è logos ed amore. La vita stessa è logos e caos assieme».

Tornando alla questione della vita: come va declinato il tema del mondo animale e del rispetto, della cura, di ogni forma di vita?

«La vita è qualcosa che ci contiene tutti: uomini, animali e piante. Senza le piante e gli animali non saremmo qui. Nel nostro corpo abbiamo un numero di micro-organismi maggiore delle nostre cellule: non è stupefacente? Dentro di noi c’è un arcipelago incredibile di microesseri. Proprio perché la nostra vita è estremamente connessa a quella degli altri esseri viventi dobbiamo salvaguardare l’ambiente e praticare un’alimentazione nonviolenta. Questa è la strada per la costruzione di una natura-spiritualità. La vita si nutre di vita e non è possibile uscire dalla catena alimentare. Anche l’alimentazione vegetariana è violenta, perché si nutre di vita vegetale. A mio avviso si può allentare questa catena: praticando un’alimentazione che contenga il meno possibile di violenza».

Lei quindi è vegetariano?

«Ancora mangio pesce, ma la carne l’ho abolita da alcuni anni».

Si vive bene lo stesso?

«A me sembra di vivere meglio per varie motivazioni. La prima è quella spirituale. Penso che l’attenzione alla sacralità della vita faccia parte di una cultura spirituale adeguata. Un’alimentazione che esclude la carne aiuta il nostro corpo. Infine gran parte dell’inquinamento dipende dagli allevamenti di animali».

Non ha timore che – dopo le varie accuse, compresa quella di gnosticismo, da parte dei difensori della tradizione e dei dogmi – verrà accusato anche di vitalismo panteista?

«Panteismo e gnosticismo sono due accuse che s’annullano tra loro. Gli gnostici antichi avevano una visione negativa della natura, al contrario dei panteisti. A volte, paradossalmente, vengo accusato contemporanemente delle due cose. “Ogni autentica spiritualità è panteista” sosteneva Albert Schweitzer. Chi pronuncia la parola Dio con non può non riconoscere che sta parlando di colui che contiene tutte le cose. Non esiste una sana spiritualità che non riconosca la presenza di Dio anche in un filo d’erba. Chiaro che Dio non si può ridurre alla natura. C’è differenza tra panteismo e pan-enteismo . Io appartengo alla seconda categoria: non credo che la materia esaurisca il divino. L’astrofisica attuale lo insegna: l’energia materiale visibile è solo il 5% del totale dell’energia dell’universo. Ma esiste il 95% di materia oscura, 25% di materia oscura unita al 70% di energia oscura, di cui non sappiamo nulla. Già solo l’astrofisica ci indica la non riducibilità dell’universo in quanto tale a ciò che possiamo vedere. Se poi vogliono darmi del panteista facciano pure. La nostra riflessione o si libera di questi schemi e pensa liberamente, per il bene, l’intelligenza e il cuore delle persone, oppure resta ancorata a vecchi e improponibili schemi».

Papa Francesco ce la farà a rinnovare la Chiesa cattolica?

«Non lo so. Ci sono segnali positivi e altri meno. Vediamo se la seconda puntata del Sinodo si chiuderà con un nulla di fatto. Fosse semplicemente solo la comunione ai divorziati risposati, se non la riscrittura dell’etica sessuale. Andrebbe messa da parte la questione della contraccezione e dei rapporti prematrimoniali: perché, così com’è, l’etica sessuale della Chiesa non viene seguita nemmeno dai cattolici praticanti. Ci sono statistiche che parlano di un 1-8% di coloro che frequentano le parrocchie a seguire le indicazioni sulle questioni sessuali. È un dato che indica la débâcle competa dell’etica sessuale. Non pretendo che si arrivi subito a riscrivere l’etica sessuale: almeno però si conceda, come il Papa vorrebbe, la comunione ai divorziati risposati. Se Francesco non ne ha la forza, allora il rischio è di un effetto boomerang: grandi attese, bei gesti, incapaci di tradursi in veri cambiamenti nella Chiesa».

 

(Articolo pubblicato su l’Adige del 18 aprile 2015)

 

Pleonexia: smania di avere più del giusto.

pleonexiaIl desiderio di possedere non è un male in se e non servono moralismi e prediche inutili per evitare la brama del possesso. Meglio regole chiare e cultura “del limite e del giusto mezzo”. A sostenerlo è il filosofo Umberto Curi, professore ordinario di storia e filosofia all’Università di Padova, giunto a Trento assieme al monaco Sabino Chialà per la prima serata della Cattedra del Confronto organizzata dalla Diocesi di Trento mercoledì 11 marzo Si parla di “tentazioni” quest’anno alla Cattedra e la prima sarà la brama dell’avere.

A Curi abbiamo chiesto in quale misura sia lecito parlare del desiderio di avere come di una“tentazione”?

“Credo sia opportuno evitare un approccio moralistico. Nella storia della filosofia viene analizzata e spesso anche censurata, la “brama dell’avere” ma non ci si riferisce al desiderio di possedere. Quest’ultimo non è evidentemente disdicevole. Piuttosto è la sua esasperazione ad esserlo. Il più della volte assume la forma della pretesa di avere più di quanto sia giusto e necessario. Non credo sia corretta una riflessione sulla disposizione di avere in quanto tale: diventa disdicevole solo nel caso in cui essa vada oltre il limite e si configuri come una vera e propria patologia. L’avere è una propensione fisiologica. Di per se uno stimolo alla crescita e a costuire qualcosa di significativo. Non credo sia immaginabile né desiderabile una condizione in cui non si avesse nessuno stimolo a possedere qualcosa. Perché è evidente che si arriverebbe ad un appiattimento totale della vita dei singoli e anche della collettività. Mentre certamente è criticabile la tendenza patologica a possedere. Possiamo prendere spunti da due autori: nella “Storia del Peloponneso” Tucidite disapprova e considera socialmente pericolosa la rapacità e avidità nel tentativo di accaparrarsi risorse. Per Platone invece in “La Reppublica” la pleonexia, smania di avere più del giusto, è quanto di più distruttivo e destabilizzante ci possa essere per la società. Possiamo rileggere anche l’Antico testamento e l’episodio nell’Esodo: il vitello d’oro. Considerato tradizionalmente una delle espressioni più compiute nella smania di accumulare ricchezza”.

Una delle tentazioni a suo avviso può essere quella di trasformare le persone in “oggetti da avere”, confondere amore e possesso, amicizia e potere?

“Nel quinto libro dell’”Etica Nicomachea” Aristortele commenta e critica questa tendenza esasperata di possesso e la vede come un estremo rispetto ad una attitudine, corretta, del “giusto mezzo”. Il desiderio di possedere non è un male in se stesso. Nella giusta misura è “neutro”, né buono né cattivo. Se ciò che muove non è la necessità o l’esigenza di procurarsi qualcosa che serva ed è utile, ma il desiderio di possesso in quanto tale, è evidente che non si potrà mai raggiungere una piena soddisfazione. Siamo di fronte ad un desiderio che si alimenta di se stesso. Possiamo evocare qualche riferimento icnongrafico: nel ciclo di Giotto, Cappella degli Scrovegni a Padova, l’avidità è rappresentata come una vecchia che brucia nei piedi ed ha una lunga lingua che gli si ritorce contro. Quasi a dire che c’è un’autocombustione dell’avaro costretto a soffrire per il suo stesso desiderio. Impossibilitato com’è ad appagarlo completamente”.

L’alternativa “essere o avere” che riflessioni le suscita?

“L’enafasi su questa disgiunzione e l’insistenza sula necessità di non curasi d’avere preoccupandosi invece di essere, nel modo in cui è stata proposta negli utlimi anni, per lo più ha un’intonazione moralistica. Non pare però raggiungere alcun risultato: suona fastidiosamente come una predica che non cambia certamente inclinazioni, appetiti e desideri. Platone ha un approccio molto realistico su questo tema: è inutile predicare, magari ai giovani, di evitare la smania di avere. E’ connaturata e fisiologica e da un certo punto di vista non è negativa. Ha un carattere dinamico connesso con il processo della crescita. Per cui serve a poco l’esortazione a curarsi dell’essere. Sarà meno entusiamante ed edificante, ma vedo più reale puntare sul senso del limite, della misura. Dove si assume come incancellabile la tendenza all’avere: solo che non si raccomanda l’impossibile, ma il tenerla entro certi limiti. Compatibili con la sopravvivenza della collettività e con un’accettabile qualità morale dell’individuo. Eviterei qualsiasi colpevolizzazione, da cui non consegue alcun risultato positivo”.

Cosa direbbe allora ad un buddhista che pratica la soppressione del desiderio o ad un monaco che si spoglia di tutti i suoi averi?

“Hanno la mia massima ammirazione come ne ho per Francesco d’Assisi. E’ paradigma di un modo di concepire la vita. Ma Francesco credo fosse il primo a rendersi conto di proporsi come modello di Gesù stesso. Copia imperfetta. La santità è di pochi, non di molti e non può essere considerata una virtù sociale. Piuttosto che puntare alla santità si dovrebbe cercare quel che è raggiungibile: il giusto mezzo, il senso del limite, lo stare dentro le regole della vita associata. Quella di Francesco e di Gesù sono delle idee regolative, ma la loro vita e il loro esempio è raro”.

Quei personaggi, asceti o profeti che rinunciano ad avere, associano la loro scelta alla conquista della libertà: beato l’uomo che non possiede nulla perché è libero da qualsiasi vincolo. Sembrano dirci.

“Certo. Il loro è un vero processo di kenosis, svuotamento. Si rendono accoglienti a ciò che veramente conta, lo spirito, la Parola di Dio. Ho una grandissima ammirazione nei confronti di questa linea che però, proprio per non svilirla, va vista nel suo carattere individuale: non può essere virtù sociale. Bisogna poi rendersi conto che gli esempi ci fanno capire tutto lo scarto che esiste tra la nostra condizione e quella del modello: Gesù si è svuotato: lui era esempio, mai veramente riproducibile. Se ne parliamo poi come virtù sociale credo che nemmeno un buddista pensi di poter estendere la propria scelta ad ogni componente della societa”.

Questo uno dei motivi perché il comunismo ha avuto qualche problema nella realtà? Una buona idea, ma che possono praticare solo in pochi?

“Volere la giustizia completa su questa terra, come pensava il comunismo, nella realtà si è rivelata una visione idolatrica. Proprio perché puntava troppo in alto”.

Il popolo, “nel deserto”, se è troppo libero, troppo chiamato alla responsabilità personale, poi si costruisce un vitello d’oro?

“Ci sono due narrazioni della consegna del decalogo da parte di Dio agli uomini. Mosè trascorre 40 giorni senza mangiare bere e dormire. Riceve le tavole incise direttamente da Dio. Torna dal suo popolo che però in quei 40 giorni ha preteso da Aronne che costruisse il vitello d’oro. Allora Mosè frantuma le tavole, impone che vi sia una dura repressione dei Leviti che hanno voluto l’idolo. Poi ritorna sul monte e a quel punto Dio non consegna unanuova copia, ma detta a Mosé quel che deve incidere. Circostanza per cui le tavole di Dio sono andate perdute. E tra le due consegne del decalogo c’è il vitello d’oro. Riflettere su questo episodio: credo sia promettente per capire la tentazione dell’avere.

Lo avrebbe una antidoto all’avidità di certi personaggi ai vertici della società che già tanto hanno e ancora vogliono, magari intascando tangenti?

”E’ necessaria la combinazione di due rimedi con la consapevolezza che non possono essere risolutivi. Ci vuole un lavoro sul piano culturale che non sia moralistico, ma tenda a far comprendere la non assolutezza dei valori dell’avere e quindi un approccio sanamente relativistico in grado di scoraggiare l’adozione del vitello d’oro. Poi occorre combinare tutto ciò con una rigorosa definizione di regole e di controllo della loro applicazione: la vera tentazione scatta quando mancano regole chiare e non esistono controlli. Così potremmo ricondurre la patologia entro limiti sopportabili.

Articolo pubblicato su L’Adige (10 marzo 2015)

Cambiare. Il capitalismo non è eterno.

Vitello d’oro, l’idolo immutabile dei nostri tempi è il capitalismo. Chi crede che sia un sistema economico «eterno» e anche di fronte alle diseguaglianze e ingiustizie che genera non pensa di cambiare strada è come se stesse idolatrando una divinità fasulla. Per Leonardo Becchetti, economista e docente presso l’Università Tor Vergata di Roma, si può invece cambiare modello in economia e si possono trovare le giuste strategie perché il cambiamento non sia traumatico, ma culturale e progressivo.
Alla Cattedra del Confronto il suo intervento, stasera, sarà attorno al tema del «cambiare il mondo» con modelli e pratiche economiche. Nel precedente incontro della Cattedra il banchiere Alessandro Profumo ha detto che il capitalismo è l’unico sistema economico attualmente possibile, altri sembra che non funzionino così bene.

Nessun cambiamento è dunque plausibile in economia? «Dobbiamo intenderci sul termine capitalismo. Se implica il sistema delle aziende intente a massimizzare il profitto e dove il vero portatore di interesse è chi mette il capitale e non i lavoratori, le comunità locali, i fornitori, allora questo non è il modello di “economia civile” che da alcuni anni stiamo elaborando e verso il quale stiamo indirizzando il cambiamento. Anche la dottrina sociale della Chiesa sostiene che la massimizzazione del profitto è il “vitello d’oro” dei nostri tempi.

La sua alternativa?
«Dobbiamo allargare l’orizzonte su tre fronti: l’uomo è persona e non “homo oeconomicus”, l’impresa non è massimizzazione del profitto, ma creazione di valore per tutti i portatori di interesse e il valore non è il pil ma il bes, benessere equo sostenibile. Questa è economia civile e quel che la dottrina sociale della Chiesa sostiene negli ultimi documenti. Il resto è “sistema tolemaico”, roba vecchia che ha mostrato ampiamente di non funzionare, con spinte autodistruttive come abbiamo constatato nel sistema bancario e monetario».
Dunque profitto sì, ma ben indirizzato?
«Verso imprese di tipo cooperativo, banche etiche, dove l’obiettivo non sia la massimizzazione del profitto per pochi. Siamo già sulla strada di questo cambiamento».

Lei parla di equità: che cosa intende esattamente?
«Per qualcuno può essere normale vivere in un mondo dove le 85 persone più ricche del mondo hanno la ricchezza dei 3 miliardi di persone più povere. Per me questo non è normale e neanche funzionale all’economia: è necessario che i ceti medio bassi abbiano la possibilità di consumare, comprare, per far funzionare l’economia. Non è un caso se le due più grandi crisi finanziarie, del 1929 e del 2007, siano scoppiate nei momenti di massima diseguaglianza. Equità significa ridurre questa profonda differenza».
Un povero, un disoccupato, come fa a partire da se stesso?
«C’è il “voto con il portafoglio” (titolo di un mio libro), se diventa un comportamento di massa. Comprare, in massa, solo quei prodotti che forniscano una certa garanzia di sostenibilità ed equità. Può essere una vera rivoluzione. Il mondo oggi non può restare al servizio dell’economia e sacrificare diritti e ambiente. Dal basso si deve votare con il portafoglio, dall’alto occorre stabilire delle regole fiscali o di partecipazione agli appalti che premino le filiere ambientalmente e socialmente più sostenibili».

Marion: l’eros e il divino nella filosofia.

6a00e54f0b199088340176171d25ba970cAvremmo bisogno di una nuova razionalità per guardare all’amore come alla vera “logica del mondo”, non come un impulso, un sentimento. Anche perché la fede nel Dio dell’Amore è una forma di intelligenza: la stupidità il vero peccato.
Jean-Luc Marion, docente presso la Sorbonne, L’Istitut Catholique de Paris e L’University di Chicago è uno dei massimi filosofi fenomenologi del nostro tempo. E’ giunto ieri in Trentino per partecipare al Seminario di alta formazione, organizzato dal Centro di Studi e Ricerche “Antonio Rosmini” del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che si terrà a Rovereto dal pomeriggio di oggi (18 marzo). L’evento più atteso è la “lectio magistralis” di Marion che si terrà giovedì 20 marzo alle ore 17.30 a Rovereto presso la Sala degli Specchi della Casa Natale di Antonio Rosmini (C.so Rosmini 28). Il titolo della lectio: “La questione dell’amore”. Per chi frequenta la filosofia contemporanea Marion con le sue idee, al margine tra fenomenologia e teologia, tra ricerca di Dio e amore per la verità, ha fatto e fa ancora molto discutere il mondo accademico, ma non solo. Il suo sta diventando un linguaggio universale, riportando al centro della riflessione un concetto universalmente riconosciuto come determinante per la vita quotidiana degli uomini: l’amore. Abbiamo incontrato il filosofo a Trento, in un dialogo dove Marion, ci ha riassunto alcune delle tematiche più importanti delle sue giornate trentine e le linee fondamentali del suo pensiero, ad uso di tutti, non solo per “gli addetti ai lavori”.

Ci spieghi, professore, come dovesse farlo per un profano, il rapporto tra amore e filosofia: lei ha tanto lavorato per chiarire il valore razionale del concetto di amore, e non solo quello religioso o spirituale. Per arrivare dove? Cosa vuole dimostrare? “La filosofia è intimamente legata all’amore: è amicizia per la sapienza. Significa che l’amore è all’origine della ricerca della verità. Ma la filosofia moderna ha reso impossibile una comprensione razionale, rigorosa, dell’amore. Abbiamo reso l’amore una “caricatura di se stesso”: lo chiamiamo desiderio, passione, irrazionalità. Persino in gran parte della letteratura d’amore esso è visto come una sorta di malattia, follia, eccezione al comportamento razionale. Oggi non esiste più un discorso sull’amore se non nei termini di desiderio, puro o impuro che sia, spiegato biologicamente. Senza alcun valore teoretico o etico. Forse abbiamo bisogno di un altro modo del pensare, di un’altra razionalità: quella dell’amore.
La ragione moderna, la ratio della scienza e della tecnica, è basata sul principio dell “io, che non solo pensa se stesso, ma si pensa come principio primo e ultimo di tutte le cose. Questo approccio, tale modalità di pensare, si è trasferita anche nel nostro modo di amare. E amiamo, desideriamo degli “oggetti”, non più dei soggetti, qualcosa che sia altro dall’io. L’amore allora diventa un bisogno, uno scambio, una convenienza reciproca, un calcolo di interessi. Il mio punto di partenza è stato quello di mettere l’”io cogito” tra virgolette. Perché nell’amore non c’è più al primo livello un “io” che pensa il resto del mondo. C’è l’esperienza opposta: quella di “essere pensato” per un altro. L’inizio del fenomeno erotico è che l’io non è più il centro del mondo. L’io non ha solo “bisogno” di un altro. L’esperienza stessa dell’amore è l’esistenza di un altro più importante di me. Non perché ognuno debba avere uno generico slancio di generosità : lo stesso sguardo dell’altro sopra di me è più importante della riflessione di me su me stesso. Non sono più il centro del mondo, ma neanche il centro del mio mondo. Questa è per me la “riduzione erotica” dell’io: il centro della spazio del mondo è l’altro”.
Tra la sua filosofia e la teologia ci sono non pochi punti di contatto: come si deve leggere la parola amore nella Bibbia. E’ eros, agape, amore erotico, amore gratuito? Come va interpretato il concetto di “cuore” che ricorre spesso nel testo biblico per indicare l’amore di Dio per l’uomo? “Nella Bibbia c’è l’agape, ma anche l’amore di tipo erotico, volgarmente inteso, è ben presente nel testo biblico. La distinzione eros-agape fu sostenuta nel secolo scorso, in ambito del cristianesimo protestante, ma è estranea la divisione tra tipi di amore nella Bibbia. Ogni distinzione e divisione dell’amore è una perdita di significato: il concetto di amore, se esiste, è unito. Unico. Se abbiamo bisogno di due concetti per spiegare l’amore significa che non abbiamo un concetto chiaro dell’amore. Per il cristianesimo questo concetto unico è di vitale importanza: se Dio ha detto di se stesso “sono Amore”, se Dio e la Chiesa hanno insegnato che senza amore non c’è salvezza, vuol dire che l’uomo deve imitare Dio dal punto di vista dell’amore, nel praticarlo. Dobbiamo amare nella stessa maniera in cui Dio ha amato noi, in Gesù Cristo: dovremmo avere la stessa maniera di amare di Dio. Per questo è indispensabile avere un concetto univoco di amore. Se c’è un modo divino di amare, e il nostro è intriso di peccato, allora la nostra esperienza di amore, piena di eros, volgarmente inteso, diventa troppo lontana da modo di amare di Dio. Ma guardiamo i padri della Chiesa e la teologia classica: hanno sempre parlato di una “scala” di amore, di livelli di amore sempre più vicini però a quello di Dio. Al modo in cui Dio ama. E’ come nel caso dei doni dello Spirito: sono tanti, ma lo Spirito Santo è uno solo. I livelli dell’amore sono tanti, ma esiste una solo “logica” dell’amore.

Lei ha spesso parlato di idolatria, in varie modalità, non solo religiose. Quali sono le forme di idolatria più pericolose oggi? Da quali idoli dovremmo liberarci? “L’idolatria è sempre la medesima: non cambia nei tempi. Significa utilizzare qualsiasi cosa, oggetto, come un sostituto di Dio. Capace di fornire un idolo. Accade dunque che, come diciamo in francese, il “visibile riempie tutta la vita”, senza spazi vuoti. Tutto lo spazio visivo è “saturo”. In quel momento decidiamo che quella “cosa” è il nostro assoluto. Una sorta di specchio di noi stessi. Charles Baudelaire lo spiegava dicendo: ogni idolatria è sempre una auto-idolatria. L’esperienza di una visione chiusa su se stessa. Per questo è possibile idolatrare qualsiasi oggetto. Il risultato è sempre il medesimo: chiudersi nello sguardo si se stessi e sfuggire dallo sguardo dell’altro e di Dio. La produzione dell’idolo è inevitabilmente mortale. Il punto più importante è fare l’esperienza opposta: essere visto dall’altro. Sostenere lo sguardo dell’altro su di se. Per questo è centrale l’esperienza dell’amore: significa sperimentare in maniera radicale l’alterità. Scoprire che “io stesso” non sono uguale a “me stesso”. Sono sotto il peso dell’esteriorità dello sguardo dell’altro. Credo sia questo l’inizio della riduzione erotica. Ma poi ci sono molte altre tappe, capire come la volontà di essere amato, possa produrre l’odio e la guerra. E infine intuire la possibilità di amare senza chiedere la reciprocità, senza domandare un ritorno, : è esattamente l’amore di Dio, ma anche di un Don Giovanni. Dio ama senza reciprocità per l’eternità, Don Giovanni in una vita ha creato la possibilità nell’altro di credere di “essere amato”.
Benedetto XVI la nominò nel 2011 membro del Pontificio Consiglio della cultura: quale è la sfida di tipo culturale che la Chiesa Cattolica dovrebbe affrontare oggi? “La cosa più importante credo sia proporre un’esperienza forte del mistero della fede. Facciamo in modo che diminuiscano i dubbi, da parte dei cristiani, i grandi dubbi sul mistero cristiano. Non è raro incontrare molti cristiani, sinceri, ma che non sono completamente persuasi che Dio abbia ragione, o che il Cristo non è più morto . Noto un deficit di fede generalizzato che comporta un deficit dell’amore e della rivelazione. Quando parliamo non siamo, da cristiani, completamente convinti del nostro messaggio. Aver meditato e approfondito il mistero cristiano conferisce, a mio avviso, la capacità di entrare in un dialogo più profondo con gli altri. La fede è un modo dell’intelligenza, del resto. La stupidità è un peccato.

Articolo pubblicato su L’Adige del 18 marzo 2014, pag. 9.

Non darsi per vinti…

Marcello Osler con i ragazzi della 1F delle scuole medie Garbari
Marcello Osler con i ragazzi della 1F delle scuole medie Garbari

Ha cantato “La montanara” dopo 53 giorni di coma, Marcello Osler: risvegliatosi quando nessuno più, o quasi, ci credeva che potesse ritornare a parlare, cantare, sorridere e forse, chissà,  anche a rimettersi in sella, su una bici. E i “miracoli” sembrano possibili quando ci si mettono anche 25 ragazzi delle scuole medie Garbari di Pergine Valsugana che ieri sono andati a fargli gli auguri di Natale al Villa Rosa, dove si trova attualmente. Osler, ciclista professionista dal 1973 al 1980, vincitore di una tappa del giro d’Italia 1975, ebbe un malore ai primi di agosto di quest’anno . Era in bici, sulla strada che corre dietro al castello di Pergine. Il suo cuore si è fermato. E il suo cervello non ha ricevuto ossigeno per un tempo lungo, sembrava troppo lungo per potersi riprendere. L’ambulanza arrivò dopo sette minuti dalla richiesta di soccorsi, mentre il fratello Gino gli praticava un massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. In totale il cuore è rimasto 20 minuti senza battere: poi ha ripreso, ma Marcello è rimasto in coma. Inizialmente i medici hanno fatto tutto il possibile per riattivare le funzioni cerebrali, ma il ciclista, conosciuto e amato in città, sembrava non rispondere. La moglie, Elena, sempre accanto a lui, nel momento in cui è stato spostato in un altro reparto, perché la rianimazione sembrava non funzionare, non si è mai data per vinta. Marcello ha anche dovuto combattere con un virus, perché le sue difese immunitarie nel frattempo si erano affievolite. A metà settembre la classe 1F delle scuole medie Garbari, appena formatasi per l’inizio della scuola, era in uscita presso il rifugio Sette Selle. Gita dell’accoglienza: con la prof. Marta Scalfo, appassionata di bici e fervente sostenitrice dell’uso del mezzo a due ruote per riprendere degli stili di vita sostenibili e compatibili con l’ambiente. Ai suoi alunni ha raccontato di Marcello, della sua passione per la bici, e della sua malattia. Del lavoro che aveva iniziato a svolgere con il suo negozio-officina bici  in Via Pennella, dove aiutava anche i più piccoli a tenere in ordine le due ruote. I ragazzi hanno recitato una preghiera tutti assieme: chiedevano che Marcello si risvegliasse . Coincidenza? Qualche giorno dopo Osler ha aperto gli occhi e appena gli sono stati tolti i supporti per la respirazione, con la moglie Elena, ha cantato: la seconda voce de “La montanara”. Lo ha raccontato lei stessa ai ragazzi che ieri pomeriggio sono andati, con disegni, cappellini natalizi,  canti e flauti da Marcello (accompagnati   dalla Scalfo e Armida Moser, docente alle Garbari): dal 21 di settembre piano piano Osler sta riprendendo le sue funzioni motorie. Ma il cervello è a posto: ricorda tutto, parla, sorride, canta. Il negozio? Passerà di gestione. Ma non passerà la passione per la bici, da trasmettere ai giovani che hanno chiesto si risvegliasse . Un miracolo? Certamente una grande gioia per tutti quelli che a Marcello vogliono bene.

(articolo pubblicato su L’Adige del 19 dicembre 2013)