Pleonexia: smania di avere più del giusto.

pleonexiaIl desiderio di possedere non è un male in se e non servono moralismi e prediche inutili per evitare la brama del possesso. Meglio regole chiare e cultura “del limite e del giusto mezzo”. A sostenerlo è il filosofo Umberto Curi, professore ordinario di storia e filosofia all’Università di Padova, giunto a Trento assieme al monaco Sabino Chialà per la prima serata della Cattedra del Confronto organizzata dalla Diocesi di Trento mercoledì 11 marzo Si parla di “tentazioni” quest’anno alla Cattedra e la prima sarà la brama dell’avere.

A Curi abbiamo chiesto in quale misura sia lecito parlare del desiderio di avere come di una“tentazione”?

“Credo sia opportuno evitare un approccio moralistico. Nella storia della filosofia viene analizzata e spesso anche censurata, la “brama dell’avere” ma non ci si riferisce al desiderio di possedere. Quest’ultimo non è evidentemente disdicevole. Piuttosto è la sua esasperazione ad esserlo. Il più della volte assume la forma della pretesa di avere più di quanto sia giusto e necessario. Non credo sia corretta una riflessione sulla disposizione di avere in quanto tale: diventa disdicevole solo nel caso in cui essa vada oltre il limite e si configuri come una vera e propria patologia. L’avere è una propensione fisiologica. Di per se uno stimolo alla crescita e a costuire qualcosa di significativo. Non credo sia immaginabile né desiderabile una condizione in cui non si avesse nessuno stimolo a possedere qualcosa. Perché è evidente che si arriverebbe ad un appiattimento totale della vita dei singoli e anche della collettività. Mentre certamente è criticabile la tendenza patologica a possedere. Possiamo prendere spunti da due autori: nella “Storia del Peloponneso” Tucidite disapprova e considera socialmente pericolosa la rapacità e avidità nel tentativo di accaparrarsi risorse. Per Platone invece in “La Reppublica” la pleonexia, smania di avere più del giusto, è quanto di più distruttivo e destabilizzante ci possa essere per la società. Possiamo rileggere anche l’Antico testamento e l’episodio nell’Esodo: il vitello d’oro. Considerato tradizionalmente una delle espressioni più compiute nella smania di accumulare ricchezza”.

Una delle tentazioni a suo avviso può essere quella di trasformare le persone in “oggetti da avere”, confondere amore e possesso, amicizia e potere?

“Nel quinto libro dell’”Etica Nicomachea” Aristortele commenta e critica questa tendenza esasperata di possesso e la vede come un estremo rispetto ad una attitudine, corretta, del “giusto mezzo”. Il desiderio di possedere non è un male in se stesso. Nella giusta misura è “neutro”, né buono né cattivo. Se ciò che muove non è la necessità o l’esigenza di procurarsi qualcosa che serva ed è utile, ma il desiderio di possesso in quanto tale, è evidente che non si potrà mai raggiungere una piena soddisfazione. Siamo di fronte ad un desiderio che si alimenta di se stesso. Possiamo evocare qualche riferimento icnongrafico: nel ciclo di Giotto, Cappella degli Scrovegni a Padova, l’avidità è rappresentata come una vecchia che brucia nei piedi ed ha una lunga lingua che gli si ritorce contro. Quasi a dire che c’è un’autocombustione dell’avaro costretto a soffrire per il suo stesso desiderio. Impossibilitato com’è ad appagarlo completamente”.

L’alternativa “essere o avere” che riflessioni le suscita?

“L’enafasi su questa disgiunzione e l’insistenza sula necessità di non curasi d’avere preoccupandosi invece di essere, nel modo in cui è stata proposta negli utlimi anni, per lo più ha un’intonazione moralistica. Non pare però raggiungere alcun risultato: suona fastidiosamente come una predica che non cambia certamente inclinazioni, appetiti e desideri. Platone ha un approccio molto realistico su questo tema: è inutile predicare, magari ai giovani, di evitare la smania di avere. E’ connaturata e fisiologica e da un certo punto di vista non è negativa. Ha un carattere dinamico connesso con il processo della crescita. Per cui serve a poco l’esortazione a curarsi dell’essere. Sarà meno entusiamante ed edificante, ma vedo più reale puntare sul senso del limite, della misura. Dove si assume come incancellabile la tendenza all’avere: solo che non si raccomanda l’impossibile, ma il tenerla entro certi limiti. Compatibili con la sopravvivenza della collettività e con un’accettabile qualità morale dell’individuo. Eviterei qualsiasi colpevolizzazione, da cui non consegue alcun risultato positivo”.

Cosa direbbe allora ad un buddhista che pratica la soppressione del desiderio o ad un monaco che si spoglia di tutti i suoi averi?

“Hanno la mia massima ammirazione come ne ho per Francesco d’Assisi. E’ paradigma di un modo di concepire la vita. Ma Francesco credo fosse il primo a rendersi conto di proporsi come modello di Gesù stesso. Copia imperfetta. La santità è di pochi, non di molti e non può essere considerata una virtù sociale. Piuttosto che puntare alla santità si dovrebbe cercare quel che è raggiungibile: il giusto mezzo, il senso del limite, lo stare dentro le regole della vita associata. Quella di Francesco e di Gesù sono delle idee regolative, ma la loro vita e il loro esempio è raro”.

Quei personaggi, asceti o profeti che rinunciano ad avere, associano la loro scelta alla conquista della libertà: beato l’uomo che non possiede nulla perché è libero da qualsiasi vincolo. Sembrano dirci.

“Certo. Il loro è un vero processo di kenosis, svuotamento. Si rendono accoglienti a ciò che veramente conta, lo spirito, la Parola di Dio. Ho una grandissima ammirazione nei confronti di questa linea che però, proprio per non svilirla, va vista nel suo carattere individuale: non può essere virtù sociale. Bisogna poi rendersi conto che gli esempi ci fanno capire tutto lo scarto che esiste tra la nostra condizione e quella del modello: Gesù si è svuotato: lui era esempio, mai veramente riproducibile. Se ne parliamo poi come virtù sociale credo che nemmeno un buddista pensi di poter estendere la propria scelta ad ogni componente della societa”.

Questo uno dei motivi perché il comunismo ha avuto qualche problema nella realtà? Una buona idea, ma che possono praticare solo in pochi?

“Volere la giustizia completa su questa terra, come pensava il comunismo, nella realtà si è rivelata una visione idolatrica. Proprio perché puntava troppo in alto”.

Il popolo, “nel deserto”, se è troppo libero, troppo chiamato alla responsabilità personale, poi si costruisce un vitello d’oro?

“Ci sono due narrazioni della consegna del decalogo da parte di Dio agli uomini. Mosè trascorre 40 giorni senza mangiare bere e dormire. Riceve le tavole incise direttamente da Dio. Torna dal suo popolo che però in quei 40 giorni ha preteso da Aronne che costruisse il vitello d’oro. Allora Mosè frantuma le tavole, impone che vi sia una dura repressione dei Leviti che hanno voluto l’idolo. Poi ritorna sul monte e a quel punto Dio non consegna unanuova copia, ma detta a Mosé quel che deve incidere. Circostanza per cui le tavole di Dio sono andate perdute. E tra le due consegne del decalogo c’è il vitello d’oro. Riflettere su questo episodio: credo sia promettente per capire la tentazione dell’avere.

Lo avrebbe una antidoto all’avidità di certi personaggi ai vertici della società che già tanto hanno e ancora vogliono, magari intascando tangenti?

”E’ necessaria la combinazione di due rimedi con la consapevolezza che non possono essere risolutivi. Ci vuole un lavoro sul piano culturale che non sia moralistico, ma tenda a far comprendere la non assolutezza dei valori dell’avere e quindi un approccio sanamente relativistico in grado di scoraggiare l’adozione del vitello d’oro. Poi occorre combinare tutto ciò con una rigorosa definizione di regole e di controllo della loro applicazione: la vera tentazione scatta quando mancano regole chiare e non esistono controlli. Così potremmo ricondurre la patologia entro limiti sopportabili.

Articolo pubblicato su L’Adige (10 marzo 2015)

Cambiare. Il capitalismo non è eterno.

Vitello d’oro, l’idolo immutabile dei nostri tempi è il capitalismo. Chi crede che sia un sistema economico «eterno» e anche di fronte alle diseguaglianze e ingiustizie che genera non pensa di cambiare strada è come se stesse idolatrando una divinità fasulla. Per Leonardo Becchetti, economista e docente presso l’Università Tor Vergata di Roma, si può invece cambiare modello in economia e si possono trovare le giuste strategie perché il cambiamento non sia traumatico, ma culturale e progressivo.
Alla Cattedra del Confronto il suo intervento, stasera, sarà attorno al tema del «cambiare il mondo» con modelli e pratiche economiche. Nel precedente incontro della Cattedra il banchiere Alessandro Profumo ha detto che il capitalismo è l’unico sistema economico attualmente possibile, altri sembra che non funzionino così bene.

Nessun cambiamento è dunque plausibile in economia? «Dobbiamo intenderci sul termine capitalismo. Se implica il sistema delle aziende intente a massimizzare il profitto e dove il vero portatore di interesse è chi mette il capitale e non i lavoratori, le comunità locali, i fornitori, allora questo non è il modello di “economia civile” che da alcuni anni stiamo elaborando e verso il quale stiamo indirizzando il cambiamento. Anche la dottrina sociale della Chiesa sostiene che la massimizzazione del profitto è il “vitello d’oro” dei nostri tempi.

La sua alternativa?
«Dobbiamo allargare l’orizzonte su tre fronti: l’uomo è persona e non “homo oeconomicus”, l’impresa non è massimizzazione del profitto, ma creazione di valore per tutti i portatori di interesse e il valore non è il pil ma il bes, benessere equo sostenibile. Questa è economia civile e quel che la dottrina sociale della Chiesa sostiene negli ultimi documenti. Il resto è “sistema tolemaico”, roba vecchia che ha mostrato ampiamente di non funzionare, con spinte autodistruttive come abbiamo constatato nel sistema bancario e monetario».
Dunque profitto sì, ma ben indirizzato?
«Verso imprese di tipo cooperativo, banche etiche, dove l’obiettivo non sia la massimizzazione del profitto per pochi. Siamo già sulla strada di questo cambiamento».

Lei parla di equità: che cosa intende esattamente?
«Per qualcuno può essere normale vivere in un mondo dove le 85 persone più ricche del mondo hanno la ricchezza dei 3 miliardi di persone più povere. Per me questo non è normale e neanche funzionale all’economia: è necessario che i ceti medio bassi abbiano la possibilità di consumare, comprare, per far funzionare l’economia. Non è un caso se le due più grandi crisi finanziarie, del 1929 e del 2007, siano scoppiate nei momenti di massima diseguaglianza. Equità significa ridurre questa profonda differenza».
Un povero, un disoccupato, come fa a partire da se stesso?
«C’è il “voto con il portafoglio” (titolo di un mio libro), se diventa un comportamento di massa. Comprare, in massa, solo quei prodotti che forniscano una certa garanzia di sostenibilità ed equità. Può essere una vera rivoluzione. Il mondo oggi non può restare al servizio dell’economia e sacrificare diritti e ambiente. Dal basso si deve votare con il portafoglio, dall’alto occorre stabilire delle regole fiscali o di partecipazione agli appalti che premino le filiere ambientalmente e socialmente più sostenibili».

Marion: l’eros e il divino nella filosofia.

6a00e54f0b199088340176171d25ba970cAvremmo bisogno di una nuova razionalità per guardare all’amore come alla vera “logica del mondo”, non come un impulso, un sentimento. Anche perché la fede nel Dio dell’Amore è una forma di intelligenza: la stupidità il vero peccato.
Jean-Luc Marion, docente presso la Sorbonne, L’Istitut Catholique de Paris e L’University di Chicago è uno dei massimi filosofi fenomenologi del nostro tempo. E’ giunto ieri in Trentino per partecipare al Seminario di alta formazione, organizzato dal Centro di Studi e Ricerche “Antonio Rosmini” del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che si terrà a Rovereto dal pomeriggio di oggi (18 marzo). L’evento più atteso è la “lectio magistralis” di Marion che si terrà giovedì 20 marzo alle ore 17.30 a Rovereto presso la Sala degli Specchi della Casa Natale di Antonio Rosmini (C.so Rosmini 28). Il titolo della lectio: “La questione dell’amore”. Per chi frequenta la filosofia contemporanea Marion con le sue idee, al margine tra fenomenologia e teologia, tra ricerca di Dio e amore per la verità, ha fatto e fa ancora molto discutere il mondo accademico, ma non solo. Il suo sta diventando un linguaggio universale, riportando al centro della riflessione un concetto universalmente riconosciuto come determinante per la vita quotidiana degli uomini: l’amore. Abbiamo incontrato il filosofo a Trento, in un dialogo dove Marion, ci ha riassunto alcune delle tematiche più importanti delle sue giornate trentine e le linee fondamentali del suo pensiero, ad uso di tutti, non solo per “gli addetti ai lavori”.

Ci spieghi, professore, come dovesse farlo per un profano, il rapporto tra amore e filosofia: lei ha tanto lavorato per chiarire il valore razionale del concetto di amore, e non solo quello religioso o spirituale. Per arrivare dove? Cosa vuole dimostrare? “La filosofia è intimamente legata all’amore: è amicizia per la sapienza. Significa che l’amore è all’origine della ricerca della verità. Ma la filosofia moderna ha reso impossibile una comprensione razionale, rigorosa, dell’amore. Abbiamo reso l’amore una “caricatura di se stesso”: lo chiamiamo desiderio, passione, irrazionalità. Persino in gran parte della letteratura d’amore esso è visto come una sorta di malattia, follia, eccezione al comportamento razionale. Oggi non esiste più un discorso sull’amore se non nei termini di desiderio, puro o impuro che sia, spiegato biologicamente. Senza alcun valore teoretico o etico. Forse abbiamo bisogno di un altro modo del pensare, di un’altra razionalità: quella dell’amore.
La ragione moderna, la ratio della scienza e della tecnica, è basata sul principio dell “io, che non solo pensa se stesso, ma si pensa come principio primo e ultimo di tutte le cose. Questo approccio, tale modalità di pensare, si è trasferita anche nel nostro modo di amare. E amiamo, desideriamo degli “oggetti”, non più dei soggetti, qualcosa che sia altro dall’io. L’amore allora diventa un bisogno, uno scambio, una convenienza reciproca, un calcolo di interessi. Il mio punto di partenza è stato quello di mettere l’”io cogito” tra virgolette. Perché nell’amore non c’è più al primo livello un “io” che pensa il resto del mondo. C’è l’esperienza opposta: quella di “essere pensato” per un altro. L’inizio del fenomeno erotico è che l’io non è più il centro del mondo. L’io non ha solo “bisogno” di un altro. L’esperienza stessa dell’amore è l’esistenza di un altro più importante di me. Non perché ognuno debba avere uno generico slancio di generosità : lo stesso sguardo dell’altro sopra di me è più importante della riflessione di me su me stesso. Non sono più il centro del mondo, ma neanche il centro del mio mondo. Questa è per me la “riduzione erotica” dell’io: il centro della spazio del mondo è l’altro”.
Tra la sua filosofia e la teologia ci sono non pochi punti di contatto: come si deve leggere la parola amore nella Bibbia. E’ eros, agape, amore erotico, amore gratuito? Come va interpretato il concetto di “cuore” che ricorre spesso nel testo biblico per indicare l’amore di Dio per l’uomo? “Nella Bibbia c’è l’agape, ma anche l’amore di tipo erotico, volgarmente inteso, è ben presente nel testo biblico. La distinzione eros-agape fu sostenuta nel secolo scorso, in ambito del cristianesimo protestante, ma è estranea la divisione tra tipi di amore nella Bibbia. Ogni distinzione e divisione dell’amore è una perdita di significato: il concetto di amore, se esiste, è unito. Unico. Se abbiamo bisogno di due concetti per spiegare l’amore significa che non abbiamo un concetto chiaro dell’amore. Per il cristianesimo questo concetto unico è di vitale importanza: se Dio ha detto di se stesso “sono Amore”, se Dio e la Chiesa hanno insegnato che senza amore non c’è salvezza, vuol dire che l’uomo deve imitare Dio dal punto di vista dell’amore, nel praticarlo. Dobbiamo amare nella stessa maniera in cui Dio ha amato noi, in Gesù Cristo: dovremmo avere la stessa maniera di amare di Dio. Per questo è indispensabile avere un concetto univoco di amore. Se c’è un modo divino di amare, e il nostro è intriso di peccato, allora la nostra esperienza di amore, piena di eros, volgarmente inteso, diventa troppo lontana da modo di amare di Dio. Ma guardiamo i padri della Chiesa e la teologia classica: hanno sempre parlato di una “scala” di amore, di livelli di amore sempre più vicini però a quello di Dio. Al modo in cui Dio ama. E’ come nel caso dei doni dello Spirito: sono tanti, ma lo Spirito Santo è uno solo. I livelli dell’amore sono tanti, ma esiste una solo “logica” dell’amore.

Lei ha spesso parlato di idolatria, in varie modalità, non solo religiose. Quali sono le forme di idolatria più pericolose oggi? Da quali idoli dovremmo liberarci? “L’idolatria è sempre la medesima: non cambia nei tempi. Significa utilizzare qualsiasi cosa, oggetto, come un sostituto di Dio. Capace di fornire un idolo. Accade dunque che, come diciamo in francese, il “visibile riempie tutta la vita”, senza spazi vuoti. Tutto lo spazio visivo è “saturo”. In quel momento decidiamo che quella “cosa” è il nostro assoluto. Una sorta di specchio di noi stessi. Charles Baudelaire lo spiegava dicendo: ogni idolatria è sempre una auto-idolatria. L’esperienza di una visione chiusa su se stessa. Per questo è possibile idolatrare qualsiasi oggetto. Il risultato è sempre il medesimo: chiudersi nello sguardo si se stessi e sfuggire dallo sguardo dell’altro e di Dio. La produzione dell’idolo è inevitabilmente mortale. Il punto più importante è fare l’esperienza opposta: essere visto dall’altro. Sostenere lo sguardo dell’altro su di se. Per questo è centrale l’esperienza dell’amore: significa sperimentare in maniera radicale l’alterità. Scoprire che “io stesso” non sono uguale a “me stesso”. Sono sotto il peso dell’esteriorità dello sguardo dell’altro. Credo sia questo l’inizio della riduzione erotica. Ma poi ci sono molte altre tappe, capire come la volontà di essere amato, possa produrre l’odio e la guerra. E infine intuire la possibilità di amare senza chiedere la reciprocità, senza domandare un ritorno, : è esattamente l’amore di Dio, ma anche di un Don Giovanni. Dio ama senza reciprocità per l’eternità, Don Giovanni in una vita ha creato la possibilità nell’altro di credere di “essere amato”.
Benedetto XVI la nominò nel 2011 membro del Pontificio Consiglio della cultura: quale è la sfida di tipo culturale che la Chiesa Cattolica dovrebbe affrontare oggi? “La cosa più importante credo sia proporre un’esperienza forte del mistero della fede. Facciamo in modo che diminuiscano i dubbi, da parte dei cristiani, i grandi dubbi sul mistero cristiano. Non è raro incontrare molti cristiani, sinceri, ma che non sono completamente persuasi che Dio abbia ragione, o che il Cristo non è più morto . Noto un deficit di fede generalizzato che comporta un deficit dell’amore e della rivelazione. Quando parliamo non siamo, da cristiani, completamente convinti del nostro messaggio. Aver meditato e approfondito il mistero cristiano conferisce, a mio avviso, la capacità di entrare in un dialogo più profondo con gli altri. La fede è un modo dell’intelligenza, del resto. La stupidità è un peccato.

Articolo pubblicato su L’Adige del 18 marzo 2014, pag. 9.

Non darsi per vinti…

Marcello Osler con i ragazzi della 1F delle scuole medie Garbari
Marcello Osler con i ragazzi della 1F delle scuole medie Garbari

Ha cantato “La montanara” dopo 53 giorni di coma, Marcello Osler: risvegliatosi quando nessuno più, o quasi, ci credeva che potesse ritornare a parlare, cantare, sorridere e forse, chissà,  anche a rimettersi in sella, su una bici. E i “miracoli” sembrano possibili quando ci si mettono anche 25 ragazzi delle scuole medie Garbari di Pergine Valsugana che ieri sono andati a fargli gli auguri di Natale al Villa Rosa, dove si trova attualmente. Osler, ciclista professionista dal 1973 al 1980, vincitore di una tappa del giro d’Italia 1975, ebbe un malore ai primi di agosto di quest’anno . Era in bici, sulla strada che corre dietro al castello di Pergine. Il suo cuore si è fermato. E il suo cervello non ha ricevuto ossigeno per un tempo lungo, sembrava troppo lungo per potersi riprendere. L’ambulanza arrivò dopo sette minuti dalla richiesta di soccorsi, mentre il fratello Gino gli praticava un massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. In totale il cuore è rimasto 20 minuti senza battere: poi ha ripreso, ma Marcello è rimasto in coma. Inizialmente i medici hanno fatto tutto il possibile per riattivare le funzioni cerebrali, ma il ciclista, conosciuto e amato in città, sembrava non rispondere. La moglie, Elena, sempre accanto a lui, nel momento in cui è stato spostato in un altro reparto, perché la rianimazione sembrava non funzionare, non si è mai data per vinta. Marcello ha anche dovuto combattere con un virus, perché le sue difese immunitarie nel frattempo si erano affievolite. A metà settembre la classe 1F delle scuole medie Garbari, appena formatasi per l’inizio della scuola, era in uscita presso il rifugio Sette Selle. Gita dell’accoglienza: con la prof. Marta Scalfo, appassionata di bici e fervente sostenitrice dell’uso del mezzo a due ruote per riprendere degli stili di vita sostenibili e compatibili con l’ambiente. Ai suoi alunni ha raccontato di Marcello, della sua passione per la bici, e della sua malattia. Del lavoro che aveva iniziato a svolgere con il suo negozio-officina bici  in Via Pennella, dove aiutava anche i più piccoli a tenere in ordine le due ruote. I ragazzi hanno recitato una preghiera tutti assieme: chiedevano che Marcello si risvegliasse . Coincidenza? Qualche giorno dopo Osler ha aperto gli occhi e appena gli sono stati tolti i supporti per la respirazione, con la moglie Elena, ha cantato: la seconda voce de “La montanara”. Lo ha raccontato lei stessa ai ragazzi che ieri pomeriggio sono andati, con disegni, cappellini natalizi,  canti e flauti da Marcello (accompagnati   dalla Scalfo e Armida Moser, docente alle Garbari): dal 21 di settembre piano piano Osler sta riprendendo le sue funzioni motorie. Ma il cervello è a posto: ricorda tutto, parla, sorride, canta. Il negozio? Passerà di gestione. Ma non passerà la passione per la bici, da trasmettere ai giovani che hanno chiesto si risvegliasse . Un miracolo? Certamente una grande gioia per tutti quelli che a Marcello vogliono bene.

(articolo pubblicato su L’Adige del 19 dicembre 2013)

 

Povertà ed emarginazione.

foto del sito di "Medici senza frontiere"
foto del sito di “Medici senza frontiere”

Essere solidali “conviene”, è nell’interesse di ognuno vivere in una società dove chi resta indietro, chi è povero, disabile, tossicodipendente, migrante può trovare qualcuno che lo aiuti. Perché ognuno di noi può trovarsi in condizioni di necessità e nessuno “è salvo” o immune. E la solitudine è il male dei nostri giorni. Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, sarà a Trento il prossimo mercoledì 20 novembre (ore 21, Sala Polifunzionale Opera universitaria, Via Prati 10) a parlare di “Povertà ed esclusione sociale” in una serata organizzata dalla FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), assieme al vicepresidente del Gruppo Abele, Leopoldo Grosso. Don Vinicio, settanta anni da poco compiuti, oltre che da sempre impegnato nel sociale è anche docente di diritto canonico presso l’Istituto Teologico marchigiano. E’ stato da poco pubblicato il suo ultimo libro “La finestra sulla strada” (Ancora edizioni), un’autobiografia densa di riflessioni e finestre sulla nostra società. Gli abbiamo domandato quale a suo avviso sia la povertà emergente in questi ultimi anni. “La prima è quella materiale, dovuta alla crisi economica incombente, ma la seconda e più emergente è quella della solitudine. E’ diffusa a tutti i livelli, senza distinzioni sociali: i problemi, se devono essere affrontati in solitudine, diventano tragedie. Infine c’è una terza povertà: quella culturale. Riguarda tutta una fascia di popolazione che ha paura, che si lascia spaventare e sedurre da chi punta il dito verso i diversi e fa promesse di soluzioni facili. Gente che con una parola un pochino forte definirei “ottusa”: non è capace di guardare avanti, difende i piccoli territori, i privilegi. Se queste tre povertà si sommano, è la fine: pochi strumenti, pochi amici, propensione allo stigma e la povertà diventa totale”. Ci sono degli antidoti a questa “miseria” dilagante? “La solidarietà: concetto che non va inscritto alla generosità e alla larghezza del cuore, ma rientra nell’ambito dell’interesse. La parola non deve impressionare: siamo in una condizione in cui nessuno può sentirsi sicuro. Una malattia, un incidente, un qualsiasi elemento può metterci in condizione di necessità. Il clima generale odierno non facilita nemmeno tale idea d’interesse. Le persone tendono a chiudersi nel proprio ambito senza capire che la solitudine è un ulteriore male. Il nostro sforzo deve essere verso una società aperta, che affronti realisticamente i problemi. Non solo la situazione dei migranti, dei poveri, dei disabili, ma anche quella degli adolescenti e degli anziani non viene seriamente affrontata e si procede sull’onda dell’emotività”.

 Che cosa significa giustizia per don Albanesi: quale parabola evangelica la rappresenta meglio? “Prendersi cura: soprattutto dell’oppresso, del debole. Il concetto che Dio stesso associa a giustizia è la misericordia. La parabola migliore: il figliol prodigo, guardando soprattutto all’atteggiamento del padre che rispetta la libertà del figlio e si prende cura di lui e quando lo salva, è felice”.

 Papa Francesco ha detto che vorrebbe una “Chiesa povera per i poveri”: come va realizzato questo intento? “Il problema è che pur pregando e celebrando le liturgie la fede scarseggia. C’è una doppia anima attualmente, quella “bianca” che dice lode al Signore per i doni ricevuti e una “nera” che si domanda quanti interessi produce un certo conto in banca. C’è un rapporto diretto tra fede ed essenzialità: dobbiamo avere la possibilità di vivere dignitosamente, ma allo stesso tempo è necessario allargare i nostri orizzonti e guardare a chi ha realmente bisogno, non chiudendosi nella solitudine”.

Come interpreta il “beati i poveri” delle beatitudini evangeliche? ”Semplicemente il Signore dice ai poveri che non si dimenticherà di loro, non lascerà da soli gli orfani, gli stranieri. Perché se Dio che ha creato ogni cosa per amore significa che nulla sarà abbandonato”.

Quali sono le esperienze, nella sua biografia, fonti di maggiori soddisfazioni? “I miracoli compiuti, ma non quelli straordinari: quando un ragazzo tossico viene da te, lo inserisci in una comunità e infine lo vedi star bene e celebri il suo matrimonio, battezzi i suoi figli, è un piccolo miracolo, che non dipende da me, ma che riempie il cuore. Era una persona perduta, ed è stata ritrovata. Oppure vedere un disabile sposarsi e avere dei figli: sono gioie e soddisfazioni grandissime, umanamente parlando”.

(pubblicato su “L’Adige” del 19 novembre 2013) http://www.ladige.it/