RE-VELATION

Ri-velare. E’ il verbo più adatto per quel copricapo leggero sulla testa delle donne occidentali fino al secolo scorso. Oggi diventato simbolo di appartenenza sui capelli delle donne islamiche, arabe, indiane.  Il velo vela e svela. Ri-vela nel senso che demistifica l’universo di significati che l’uomo, nel suo maschi

lismo, carica sul quel tessuto più o meno leggero. Allo stesso tempo manifesta l’indole seducente del nascondere: quel che è prezioso va scoperto.

 

Sul velo Maria Grazia Muzzarelli, professore associato di “Storia medievale” presso l’Università di Bologna, ha scritto un saggio, A capo coperto. Storie di donne e di veli
(Il Mulino). Ne ha parlato l’ 8 marzo, Festa della donna, (ore 17.30) al Museo diocesano di Trento (Piazza Duomo, 18)  in un incontro dal titolo: “Il velo: un’eredità, una permanenza, un paradosso, un oggetto che fa discutere”. Al diocesano si tiene in questi giorni e fino al 30 aprile la mostra” RE-VELATION”, a cura di Clelia Belgrado e Domenica Primerano. Si tratta di una serie fotografica di Carla Iacono sul tema della manipolazione delle differenze culturali, a partire dalla situazione delle donne musulmane immigrate in Europa.

 

Alla Muzzarelli abbiamo domandato cosa sta “sotto il velo”, che oggi ci fa paura sulle teste delle donne immigrate.

“Anziché  considerarlo come oggetto di timore bisognerebbe guardarne la storia. Il velo  è un oggetto “in mezzo a noi, ma anche parte rilevante della cultura mediterranea.

Credo sia necessario disincrostare questo il simbolo, per far emergere bellezza e anche seduzione. Occorre eliminare i significati più severi e cercare di considerarlo come un oggetto per veicolare messaggi diversi,  non necessariamente per suscitare timore. Nella nostra cultura non c’è più l’uso di stare regolarmente a capo coperto tra le donne: ma è una trazione mediterranea e addirittura il mondo cristiano ha utilizzato il velo come pubblicità delle virtù delle donne. Basti guardare gli ordini monastici femminili. Una esperienza che è stata presente fino alla metà circa del novecento”.

 

Cosa a suo avviso ha “tolto il velo” alle donne occidentali?

“La moda: è una delle tesi contenute nel mio saggio.  Inizialmente ha permesso al velo di diventare un elemento ornamentale, seducente come la famosa “veletta” sugli occhi delle donne del XIX secolo. E’ uno dei paradossi più grandi: quel che doveva essere un elemento di sottomissione ai dettami della religione e della cultura maschilista è diventata occasione per cambiare lo sguardo sulle donne”.

 

Oggi sono tante le giovani donne, islamiche o comunque di cultura araba, che portano il velo a scuola come in ufficio, in mezzo a noi. Perché ci fanno paura?

 

“Se il velo è una scelta allora vuol dire che le scelte non sono mai fatte in un mondo iperuranico, sono legate alla realtà che ogni singola donna vive. Di per sé il velo non è un elemento di mancata emancipazione: può essere invece l’affermazione della propria identità. Se ad una ragazza giovane fa piacere portare il velo per sottolineare la propria appartenenza che problemi abbiamo noi di culture diverse ad accettarla?   Trovo inaccettabile invece che diventi un blocco ad una vita di relazione. Il velo non è imposto dal Corano: ci sono solo alcune sure che vi fanno riferimento e non sono prescrittive”.

 

Il messaggi erotici, sensuali, passano quasi esclusivamente dal corpo delle donne: è uno dei punti chiave per leggere la tradizione del velo?

 

“Recentemente sono stata in Tunisia per alcune conferenze: delle ragazze del luogo mi hanno avvicinato chiedendomi come valutavo il fatto che per  vendere un’automobile in occidente si usa l’immagine di una donna nuda. “Questo è vero abuso del corpo delle donne”, mi hanno detto. Ho dovuto dar loro ragione. La mercificazione del corpo femminile a fine pubblicitari è oggettivamente un elemento che immiserisce e annichilisce le donne. Non è solo responsabilità degli uomini, ma anche di quelle donne che si prestano a questo “gioco delle parti”. Posso solo dire che il velo è una forma di copertura che ha in sé dell’ambiguità.

Copre e scopre allo stesso tempo. Vorrebbe distogliere gli sguardi in realtà li attrae. Credo che sia uno degli aspetti più belli e sensuali della relazione erotica. Vedere e non vedere, la lucentezza, l’attrazione, la leggerezza al posto di una esplicita esposizione “senza veli”.

 

Concludendo lo chador va bene anche a scuola, anche in ufficio?

 

“A patto che sia un elemento di identità, di appartenenza. Ma non diventi la punta dell’iceberg della sottomissione femminile. Il velo può essere un elemento di grazia, una forma di fedeltà ad una tradizione assolutamente legittima in tutti gli ambienti. Con dei limiti certamente: devo poter capire chi ho davanti. Ci sono delle regole che la nostra civiltà occidentale impone: credo tutte legittime. Ma il velo non è un oggetto a cui attribuire necessariamente significati negativi. Anche perché è parte della nostra storia. Non solo il velo è “fra noi” in testa a donne di altre fedi o tradizioni,  ma è nelle pieghe della nostra storia recente. Le nostre nonne hanno continuato a coprirsi il capo. Mia nonna non usciva di casa senza un cappello, e lo teneva anche in casa di amiche. Questa non è una storia che risale a chissà quanti secoli or sono. E’ la nostra storia. Dalla nostra latitudine la moda ha fatto cadere l’uso di coprirsi il capo. Allo stesso tempo è aumentato lo spazio di consapevolezza delle donne: questo è il vero valore.

 

Genome editing:

E’ giusto intervenire sul genoma umano? Quali sono i rischi, non solo dal punto di vista medico e scientifico, ma etico e morale? E’ lecito modificare il genoma umano in modo che le generazioni future siano più resistenti? Ne ha discusso Lucia Galvagni, ricercatrice al Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento, in un suo recente intervento a Belgrado dal titolo: “Genome editing: biomedical and ethical perspectives”, organizzato dal Center for the Study of Bioethics (Belgrado), in collaborazione con l’Hastings Center (New York) e la NYU School of Medicine. Galvagni ha parlato di “Enhancement umano e tecnologie di genome-editing: nel dibattito c’è un posto e un ruolo anche per le religioni?”

Migliorare la nostra umanità dal punto di vista genetico – abbiamo domandato alla ricercatrice di Trento – non le sembra una cosa “buona e giusta” se guardiamo a quanto recentemente accaduto ad un bimbo al Bambin Gesù di Roma che grazie ad una modificazione genetica ha sconfitto la leucemia?
“Certamente è una cosa buona. Ma credo si debbano fare delle distinzioni: ci sono delle modificazioni genetiche su individui adulti o su bambini. La si fa da tempo e viene chiamata terapia genica somatica. Nel momento in cui sono state fatte le dovute sperimentazioni e verifiche, viene considerato un intervento valido dal punto di vista clinico e lecito dal punto di vista morale e legale. E’ invece molto in discussione oggi la possibilità di intervenire con terapia genica sulle cellule iniziali di un embrione, la cosiddetta terapia genica germinale”.
Quali sono i motivi di discussione su questo tipo di terapie: non sono comunque orientate al benessere di una persona che dovrà nascere? “Permangono forti dubbi rispetto ai rischi: se si interviene a modificare uno zigote cosa succederà nello sviluppo successivo? Si può essere sicuri di prevenire una malattia con un intervento genetico, ma non si può essere altrettanto certi di non indurre indirettamente un danno biologico. Sugli interventi diretti sul genoma umano abbiamo ancora molti punti di domanda: cosa potrebbe succedere sul medio e lungo periodo? Quali possono essere le conseguenze a livello metabolico? Non possiamo sapere infatti se la modificazione potrà dare degli effetti nello sviluppo dell’individuo. La convenzione di Oviedo del ‘97 esclude interventi genetici a livello germinale”.

Questo per quanto riguarda un livello medico e scientifico: eticamente invece quali sono i dubbi? “Ci sono posizioni diverse: per qualcuno il fatto stesso di poter migliorare le condizioni di vita del nascituro giustifica un intervento sul genoma, anche con dei margini di incertezza. In Europa in particolare però ci sono molte resistenze a livello morale e molti sono stati i pronunciamenti che invitano alla cautela. Ci sono troppe incertezze e per ora gli interventi riguardano soprattutto forme di terapia genetica. Il miglioramento invece non è previsto”.
Quale potrebbe essere il ruolo delle religioni in questa discussione? “Al Convegno di Belgrado sul “genome editing” ho presentato le ricerche che stiamo svolgendo in FBK a Trento, in particolare quel che è emerso dal recente simposio “Making the cut? Scientific possibilities and ethical, legal and social challenges of gene-editing” con vari esperti da tutta Europa. C’è stata discussione su un punto: è lecito, oltre all’intervento terapeutico, pensare di migliorare la condizione di adattamento delle generazioni umane future ad alcune condizioni ambientali avverse? A Belgrado una delegazione di esperti di Oxford su questo punto è stata chiara: è un dovere morale lavorare per migliorare le condizioni di adattamento dell’uomo alla vita e all’ambiente”.
Questa posizione lei la condivide? “Noi rispetto a questo scenario stiamo cercando di capire quali sono i limiti, i rischi, di un intervento genetico. L’incertezza non è mia: è la comunità medico scientifica che avanza dubbi. Come in tutte le scoperte scientifiche dobbiamo pensare agli effetti che non possiamo prevedere in questo momento. I danni potrebbero essere superiori al beneficio che oggi vediamo. A Belgrado altri ricercatori di New York, medici, hanno detto chiaramente che non intendono avviare un percorso di miglioramento del genoma umano fintanto che non ci saranno conoscenze più solide”.

Quindi si tratta solo di sperimentare, aspettare e controllare gli effetti, non ci sono remore di altro tipo? “ Si tratta di tempo a c’è anche bisogno di avviare delle sperimentazioni più mirate. Rispetto ad una determinata malattia prima dobbiamo stabilire se non esistono farmaci o altre tecniche per contrastarla. Solo allora possiamo decidere di intervenire a livello genetico. La questione a monte è abbastanza semplice: il genome editing serve anche per prevenire malattie, ma anche per modificare il genoma di piante e animali. Sono tecnologie molto promettenti dal punto di vista umano che sono di fatto già applicate in agricoltura e zootecnia. Sull’uomo crediamo sia meglio avere pazienza. Per ora è meglio concentrarci su quelle malattie dell’uomo che hanno una prevalente o esclusiva componente genetica, cosiddette monogeniche, che però sono molto poche”.

La strada comunque è aperta: un uomo “migliore” è possibile? E’ superato il dualismo naturale-artificiale? “Su questo il dibattito etico e filosofico è aperto. Abbiamo di fronte una specie di “superuomo” di nietzschiana memoria? Capace di avere delle performance fisiche e cognitive superiori? Su questo punto le religioni hanno atteggiamenti diversi e quello che una tempo era un caposaldo, la distinzione tra naturale e artificiale, oggi è meno semplice da definire. Abbiamo forzato il limite naturale su tanti versanti: quel che si fa in terapia intensiva è artificio. Un arresto cardiaco è la morte naturale di un individuo: noi oggi possiamo intervenire “artificialmente” per salvare una vita. Un tempo si parlava di “fecondazione artificiale”, oggi parliamo di “fecondazione assistita”, non a caso. Naturale a volte diventa artificiale oggi, culturalmente è stato ampiamente superato il dualismo”.

Le religioni stanno a guardare? “ Sulla trasmissione della vita ci sono posizioni diverse: le tecnologie della fecondazione assistita sono viste con cautela nelle religioni d’occidente, monoteiste, del libro. Prevale la domanda: una coppia deve avere a tutti costi un figlio? Mentre tra le religioni orientali prevale il criterio della trasmissione della vita, mettendo in secondo piano le tecniche di fecondazione. Le componenti culturali delle diverse religioni sono determinanti. le religioni poi, in generale, aiutano a riflettere sulla finalità delle tecniche biomediche: perché facciamo qualcosa? Con che obiettivi?”.

Infine c’è un problema di giustizia sociale: chi può accedere a questo tipo di tecnologie per il miglioramento della condizione umana? Quali sono i costi? “La ragione per cui le tecnologie di editing del genoma sono diventate oggetto di forte discussione è proprio questa: negli ultimi tempi, con la CRISPR technology, un sistema molto efficace per intervenire sul genoma, i costi si sono molto abbassati. Fino a quando per l’editing genetico i costi erano alti non si poneva il problema. Ora si tratta di tecniche facilmente accessibili. Proprio per questo si discute: abbiamo delle tecniche semplici, efficaci e convenienti. Perché non usarle? In realtà si tratta comunque di pratiche possibili solo in laboratori specializzati: ne esistono nei Paesi cosiddetti più sviluppati, ma non dovunque nel mondo. Ecco che si pone ancora la questione della giustizia: se parliamo di genome editing non possiamo estenderlo ad un livello globale, ma per ora solo ad alcune zone del mondo”.

 

Articolo pubblicato su L’Adige del 20 febbraio 2018