Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Nel rapporto tra generazioni, tra adulti e adolescenti, non si può semplificare: non ci sono ricette facili per affrontare la complessità e le novità del modo in cui ragazze e ragazzi interpretano il loro corpo, gli ambienti virtuali, le relazioni e l’identità anche di genere. Ne ha parlato lo psichiatra, psicoterapeuta e docente universitario Gustavo Pietropolli Charmet a Vigolo Vattaro, domenica 20 agosto 2023 per l’Agosto degasperiano, organizzato dalla Fondazione trentina Alcide De Gasperi. In particolare, per lo psicoterapeuta, durante la pandemia gli adulti non sono riusciti a parlare con i giovani dei veri problemi e delle questioni cruciali come la morte. 

“Uno dei compiti della generazione degli adulti è di presentare ai cuccioli che si aprono alla vita, tutte le dimensioni della realtà – spiga Pietropolli Charmet – anche quelle della sconfitta, della perdita, della privazione, della malattia e infine della morte. L’attuale modello educativo degli adulti è orientato in una direzione completamente diversa: l’obiettivo sembra  occultare la dimensione della sconfitta, a favore della dimensione del trionfo, della vittoria, del successo e  della ricchezza. Una visione estremamente edulcorata di ciò che succede nella vita. Questo da un lato illude, crea aspettative, induce i ragazzi a tentare di aver successo e affermazione. Nella realtà però il riconoscimento della propria bellezza e unicità non è così facile da ottenere: emergono le dimensioni dell’insuccesso, della rabbia e rottura della relazione di fiducia nei confronti di chi aveva illuso, descrivendo la vita come una passeggiata, mentre in concreto, a cominciare dalle scuole superiori, la faccenda diventa parecchio difficile. 

L’esperienza del Covid ha quindi fatto emergere difficoltà già presenti? 

“La fragilità delle nuove generazioni è riconducibile ad una serie di fattori, ma sicuramente anche al fatto di essere esposti alla delusione rispetto ad aspettative di successo difficili da ottenere. Il periodo del Covid è stato esemplare: davvero gli adulti hanno taciuto ai giovani quanto grave fosse la situazione e come fossero minacciati i fondamenti stessi della nostra vita. Gli adulti attiravano l’attenzione sul rispetto delle regole, non assembramenti, distanza: tutte cose che ai ragazzi sono sembrate facili da rispettare ed hanno rispettato. Salvo poi fare i conti con l’atmosfera generale: quella della grande paura rispetto al futuro. Un attacco durissimo alle strutture portanti della vita dei ragazzi: con la scuola che traballava, incerta sul da farsi, chiusa o socchiusa. Una situazione in cui emergevano  difficoltà e fragilità  della nostra realtà sociale, contraddicendo la teoria di una vita facile e predisposta per il successo, felicità e riconoscimento della persona”. 

Quindi cosa è mancato da parte degli adulti? 

“Credo che la generazione degli adulti avrebbe dovuto farsi carico di una “educazione alla morte”, un allenamento all’esperienza dell’insuccesso e della frustrazione. Altrimenti quando viene messa in discussione la certezza del diritto ad avere successo arrivano le grandi delusioni e con esse le conclusioni estreme dei giovani: non vale la pena, è tutto un inganno, meglio il ritiro sociale”. 

Sostanzialmente la sua analisi di qualche tempo fa sul passaggio da un modello edipico dell’educazione, con l’opposizione alla figura autoritaria del padre, ad uno narcisistico in cui i giovani sono super amati e iper valutati dai genitori, viene totalmente confermato dall’esperienza del Covid? 

“E’ una questione centrale se vogliamo discutere della relazione tra le generazioni. Il principio di autorità è messo seriamente in discussione. Accade ad un livello generale nel nostro Paese, a cominciare dalle strutture politiche, ma poi nella famiglia e nella scuola. La figura paterna ne è pienamente coinvolta: il padre si ritrova a non svolgere più  la sua funzione: far rispettare le regole anche a suon di minacce e pratiche di castighi molto temibili. Questo abbandono di un ruolo paterno e il passaggio da una funzione autoritaria ad una accuditiva ha però molto migliorato le relazioni tra le generazioni. Solo fino a qualche tempo fa la relazione era caratterizzata da una contestazione accanita che coinvolgeva tutte le figure educative: quella del padre, del docente fino all’autorità dello Stato. La diminuzione dell’importanza della regola a favore dell’importanza della relazione e quindi la realizzazione di una pace conveniente sia in famiglia che a scuola, ha ridotto moltissimo il livello della contestazione. Dall’altra parte si è aperta la strada a una possibile contrattazione delle relazioni tra le due generazioni. Quel che accade tutt’oggi: i ragazzi stanno cercando degli adulti competenti, ma proprio a questo livello può esserci qualche difficoltà. Per gli adulti non è facile capire bene che vita fanno gli adolescenti, quali siano i loro problemi e come si possano da un lato aiutare e dall’altro indirizzare, proponendo loro soluzioni alternative a quelle a volte troppo complesse”. 

Quel che manca è anche una fiducia reciproca tra agenzie educative, scuola e famiglia? 

“Effettivamente dovrebbe esserci una alleanza tra scuola e famiglia incentrata su questa domanda: ma cosa sta succedendo tra i ragazzi, qual’è il significato dei loro comportamenti? Perché questa centralità del gruppo? Perché questa dipendenza dal gruppo degli amici e dei valori ideali che il gruppo trasmette attraverso internet? Questo credo sia un problema cruciale: chiederci a che punto siamo nella conoscenza, necessaria da parte degli adulti, per avere una maggiore possibilità di accogliere la richiesta di aiuto dei ragazzi di essere aiutati a crescere. Occorre qualcuno che sveli loro il segreto della conoscenza e quanta fatica si debba fare per realizzare la propria crescita personale. La difficoltà oggi è incentrata sulla incapacità  di capire bene il “senso delle novità”: il nuovo modo di amare, di intrattenere una relazione, quello di gestire i conflitti tra coetanei”. 

Nel suo ultimo saggio “Gioventù rubata” (Rizzoli) emerge il ruolo della rete e dei social: dal suo punto il mondo virtuale ha solo delle criticità?

“E’ un’altra difficoltà degli adulti: dare il giusto peso all’importanza, qualità e significatività affettiva delle relazioni di amicizia “virtuale”. Per loro non c’è differenza tra amicizia virtuale e quella che si realizza nell’ambito sociale. Quando ne parlano o raccontano eventi relazionali dell’uno e dell’altro tipo di amicizia si capisce che per loro non esiste differenza. Tanto più che spesso l’amicizia si trasforma in affetto e amore: il mondo virtuale è per i giovani una soluzione alle difficoltà della vita. Si trasferiscono, armi e bagagli, nella dimensione virtuale, dove tutto sembra più facile perché è possibile esercitare un maggiore controllo, si è meno esposti agli imprevisti”.

Da psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica, come giudica il fatto che attualmente Freud sembra dimenticato e prevale  la linea delle neuroscienze o del comportamentismo, dove si cercano presunte oggettività “scientifiche” con cui misurare e modellare i comportamenti umani? 

“Fa parte delle leggi del mercato: la  “merce psicoanalitica” è troppo costosa e non dà garanzia di successo, mentre il comportamentismo o altre scuole di pensiero forniscono dei consigli, delle indicazioni o addirittura  indicano le regole di comportamento più adeguate per realizzare i propri scopi nella vita. Quindi tutto diventa più breve rispetto alle lungaggini psicoanalitiche: tutto più facile. Senza eccessi di sofferenza e tormento dell’indagine profonda. L’obiettivo non è capire a fondo la situazione, ma realizzare i propri scopi attraverso la strada più breve e meno dolorosa, dove è necessaria meno consapevolezza e responsabilità. Indubbiamente c’è una perdita importante da un punto di vista culturale, anche se dal punto di vista della salute pubblica non è male che si ricordino i criteri di base: la dimensione psicologica e quella relazionale. 

Di fronte a casi di giovani anoressiche o di adolescenti che “si tagliano” però è difficile trovare dei rimedi con la psicologia comportamentista o cognitiva. 

“E’ difficile per qualsiasi disciplina ottenere dei risultati stabili in tempi brevi. Questo è dovuto alla serietà e al vero significato del digiuno, del ritiro sociale o del tagliarsi: si tratta di un rifiuto sostanziale della propria corporeità e il bisogno di avere accesso ad una nuova dimensione corporea. Fino al desiderio di cambiare identità di genere: optare per una identità diversa. Il mettere in discussione la base percepibile di una realtà sessuale complica moltissimo la relazione con gli adulti, costretti a cambiare il nome del proprio allievo o figlio che ha deciso di chiamarsi in modo diverso. Tutto ciò è collegabile ad uno dei fenomeni più importanti di questa generazione: la liberazione dei costumi sessuali e l’assoluta libertà di identificazione e del significato del linguaggio del corpo con i suoi desideri ed enigmi. La complessità di questi fenomeni costituisce per gli adulti una sfida ardua, che comporta anche decisioni in certi casi drammatiche. Su queste questioni anche il mondo psichiatrico e psicoterapeutico è in difficoltà nel decidere quale sia il significato profondo da dare a questi rifiuti e perplessità sulla corporeità e decisioni categoriche di adolescenti di 13 o 14 anni che sostengono assolutamente di essere un’altra persona, non quella che gli altri vedono. Importante non è più la sessualità ma la personalità. 

Concludendo l’adolescenza è una malattia oppure la vediamo così perché la nostra cultura e società ci impedisce di comprendere qualcosa? 

Il rischio è proprio questo: di fronte alla complessità della vita adolescenziale si ricorre a drastiche operazioni riduttive e si usa il modello psicopatologico per dare senso agli eventi in corso. Questo è uno dei tanti rischi che sta correndo la nostra società: a livello educativo il rischio cresce perché i ragazzi si basano molto sul giudizio degli adulti  che corre sottotraccia e arriva nelle profondità della psiche. Quindi se la società considera l’adolescente un “malatino” che guarirà crescendo, giudizio denigratorio e privo di qualsiasi efficacia, il risultato può essere molto deleterio.

(Articolo pubblicato su L’Adige del 17 agosto 2023)

Marx antidoto alla guerra tra poveri.

Cosa accomuna una miniera di carbone dell’800, la catena di montaggio del modello T della Ford  e Amazon? Sono modalità per accumulare profitto, sfruttando i lavoratori. Marx non solo aveva ragione, ma le sue teorie sono completamente confermate oggi, secondo Paolo Ferrero nel suo ultimo saggio “Marx oltre i luoghi comuni” (DeriveApprodi editore).

A Ferrero abbiamo chiesto cosa resta attuale di Marx filosofo che, attraverso la “vecchia” dialettica hegeliana, prevedeva un evolversi della storia in direzione del socialismo.  

“L’impianto di Marx sta in piedi completamente e si è drammaticamente verificato. Egli ritiene il modo di produzione capitalistico “rivoluzionario”. Il capitalismo è un grande produttore di ricchezza, ma per Marx la ricchezza va socializzata. In alternativa si produce una situazione di barbarie, più precisamente di “annichilimento di entrambe le classi in lotta”. Noi siamo esattamente a questo punto: Marx parla di oggi, del capitalismo maturo e di quell’enorme  ricchezza che invece di produrre il benessere dell’umanità ha generato diseguaglianze pazzesche, distruzione della natura, razzismi”.

Col cambiamento dei mezzi di produzione, non più solo fabbriche d’un tempo, la logica dello sfruttamento del lavoro è la medesima? “Sono cambiate le forme: la Shell si occupava di petrolio, la General Motor di automobili  oggi Amazon si occupa di vendite on line. Tutte e tre sono forme diverse di concentrazioni di sistemi produttivi, ma dal punto di vista dello scopo sono uguali: forme di massimizzazione del profitto privato. Marx non fece infatti analisi del singolo processo produttivo, ma del sistema di valorizzazione del capitale che è lo stesso oggi e ducento anni fa”.

Se dunque il capitalismo usa le stesse modalità, oggi però le classi sociali sono profondamente cambiate: non esiste più quel proletariato che avrebbe potuto fare la rivoluzione? “I capitalisti hanno sconfitto i lavoratori ed hanno vinto la lotta di classe. Una parte significativa della battaglia è ideologica: sono riusciti a far credere ai poveracci, mazzolati dai padroni, che i loro veri nemici sono altri poveracci, i migranti. Il nazionalismo ha sempre avuto questo effetto: nella prima guerra mondiale si è riusciti a mettere contadini e operai uni contro gli altri in nome della “Nazione”. I padroni sono sempre riusciti in maniera egregia a spostare le energie delle classi povere nelle direzione che desideravano. I servi dei poteri forti, come Matteo Salvini, danno una mano a costruire questa guerra tra i poveri, mentre i ricchi ridono alle spalle dei popoli. Così come fecero fascisti e nazisti che costruirono nazionalismo e razzismo: fu la base della guerra tra poveri”.

Anche la crisi economica e del lavoro oggi “muove le masse”: sembra però che la direzione sia sempre quella dell’individualismo, non della socializzazione e del comunismo.

“Tutto è nato a partire dai tempi di Craxi che tagliò i quattro punti di contingenza,  e poi avanti fino ai giorni nostri: hanno iniziato a ripetere che “c’è scarsità”, “non ce n’è per tutti”.  La gente ha iniziato a pensare che se non c’è lavoro per il propri figli tanto meno deve esserci per l’immigrato.La scarsità però è  una balla colossale. L’umanità non è mai stata così ricca. La crisi non è di scarsità, ma di sovrapproduzione. L’unica cosa che veramente non funziona è che la ricchezza e mal distribuita. Alcuni dati concreti: la ricchezza privata italiana è pari a ottomila miliardi di euro: quella tedesca è quattromila miliardi.  Più della metà della ricchezza privata italiana è in mano al 10% della popolazione. Questo significa che il 10% degli italiani più ricchi ha nelle sue mani più della ricchezza dell’intera popolazione tedesca. Ne possiamo dedurre che l’Italia è un Paese povero? No: è un posto dove i ricchi sono pieni di soldi da far schifo alle spalle di quel popolo che viene volutamente rincretinito, a reti unificate, da 35 anni da centrodestra e centrosinistra, con la storia che “non ci sono soldi”. Salvini è l’utile strumento che serve a fregare il popolo italiano e invece che indicare i veri responsabili della povertà e del disagio istiga i poveri contro i migranti.

Oggi la parola “cattocomunista” è usata in modo deteriore, quasi come un insulto. A suo avviso quanto c’è degli ideali cristiani in Marx? “ Per Marx il centro dell’esistenza è la possibilità di condurre una vita degna di essere vissuta. La lotta per superare il capitalismo significa sforzo per usare la ricchezza affinché ogni uomo ed ogni donna possa realizzarsi. Questo è uno degli obiettivi dichiarati anche da Papa Francesco oggi: Marx ci arriva con il materialismo, non con lo spiritualismo religioso”.

Dunque “il senso della vita” per Marx non sta nell’accumulare,  ma nel condividere? “Solo un idiota pensa che riempirsi le tasche di soldi possa essere il suo scopo: i soldi e la ricchezza di fronte alla morte non possono nulla. Cosa se ne fa il ricco della sua abbondanza in punto di morte? Marx pone un problema: come fare perché tutti possano vivere decentemente per crescere come esseri umani? Il socialismo non è una caserma,  ma l’aver risolto i nodi concreti della sicurezza sociale per aprire agli individui la possibilità di sviluppare se stessi”.

Anno nuovo o una seconda vita? François Jullien

31/12/2020 … finisce questo annus horribilis e mi aspetto una seconda vita da quello nuovo? Calma, parliamone…

Di certo non dipende solo dagli eventi esterni, da coronavirus o altro, se la mia vita avrà una svolta. E certamente non esiste una cesura netta, non può esserci un semplice “prima e dopo” o, peggio ancora per la nostra intelligenza, sperare che si possa semplicemnte “tornare alla normalità”. Di che normalità stiamo parlando? Di quella che ci permetteva di pensare ad un potere infinito, senza limiti, in cui il nostro umano ingegno ci portava verso uno scenario di magnifiche sorti e progressive? Ma perfavore…guardiamoci attorno.

Che cosa possiamo realisticamente progettare ce lo suggerisce François Jullien in “Una seconda vita. Come cominciare ad esistere davvero” edito da Feltrinelli. Il sottotitolo sembra quello di un manuale americano per il successo personale, non proprio azzeccato direi.

  • Vi risparmio spiegazioni pseudodotte su chi è Jullien per dirvi solo che ho saputo della sua esistenza da una mia studentessa che confidando nella vastità del sapere del suo professore di filosofia mi ha domandato: Prof, cosa ne pensa di Jullien e del suo modo di far dialogare le cultura orientali con quella europea? Alla domanda sono sbiancato perchè ignoravo chi fosse il filosofo in questione. In un attimo mi è passata di fronte tutta la mia vita, da quando mia madre mi portò a comprare il mio primo orsetto (primo ricordo, avevo 5 anni) in poi. Non trovando alcuna soluzione nelle strategie pregresse per evitare una brutta figura, ho ammesso la mia ignoranza con la studentessa (meglio ammettere la propria ignoranza che arrampicarsi sugli specchi in maniera rumorosa e indecente: non è una strategia vincente, ma onesta). Il giorno dopo comprai il mio primo libro di Jullien.
  • Faticoso l’inizio del saggio, un linguaggio non proprio immediato. “Questo scimmiotta un pò Heidegger, un pochino Martino Martini, con tracce di Marion e un pizzico di Levinas”. Mi dicevo inizialmente per mitigare la mia colpevole ignoranza. Poi però, andando avanti, ho capito quanto sono ignorante.

Il buon Jullien in realtà ti accompagna per mano, in poche pagine (circa 120) verso una lucidità, come lui stesso la chiama, che alcuni altri non sono in grado di darci parlando di un tema come la possibilità di riformare la nostra esistenza, se non in modo oscuro, retorico, moralistico o altisonante.

Di buoni propositi siam sempre pronti a farne e più si va avanti nella vita più restiamo uguali a noi stessi, commettendo sempre gli stessi errori. Forse sbagliamo con questa idea che ci vuole una cesura, un taglio, una diversità. Magari la soluzione sta nel guardare diversamente noi stessi e il mondo con una “illuminazione” diversa, liberata dalla drammaticità dell'”aut aut” o dalla epicità delle scelte fondamentali, così come dalla rassegnazione di restare quel che siamo.

  • Ecco allora alcune frasi di Jullien, tratte dall’ultimo capitolo, che possono fare bene al nostro ultimo giorno del vecchio anno o primo giorno del nuovo anno.

A partire dai piccoli spostamenti percepiti nel corso della vita, infatti, si può decidere lentamente di riformare la propria vita oppure di lasciarla andare nel suo corso continuando a rinviare. Abbiamo qui un’alternativa e, di conseguenza, una frattura riguardo ciò che in fondo è la scelta etica. Si può dispiegare passo dopo passo la propria libertà – che non è concessa in un colpo solo – attraverso inflessioni sempre più risolute, riflesse, a partire dalla vita passata; oppure ci si può compiacere ingenuamente nell’illusione di scegliere senza essersi dotati della capacità di farlo. Sprigionando la propria vita, ci si può “mantenere fuori” dalla chiusura del mondo – in senso proprio, “ex-istere”. Diversamente si può lasciare sprofondare la propria vita vincolandosi all’orizzonte basso di ciò che fa mondo. Ci sono le vite che si riprendono, le vite riformate, e le altre. Le nostre vite infatti si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori, in conformità al noto modello stoico, quanto di tenere gli occhi aperti sul negativo interno della vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni o sostituzioni. Di qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per un rilancio della vita e la possibilità di una seconda vita.

Gioacchino da Fiore e la fondazione dell’Ordine Florense.

Saggio le cui origini risalgono al periodo in cui ero un ragazzotto catto-comunista convinto di poter vivere secondo “spirito di condivisione”. Quindi non è cambiato nulla, a parte che non sono più un ragazzotto. Non credo sia opera di cui si senta un gran bisogno, anzi, lo definirei quasi totalmente inessenziale, ma comunque può risultare simpatico o utile a chi pratica filosofia e storia medievale e/o a chi ama e conoscce l’opera di Gioacchino da Fiore. E’ in forma narrativa, con analisi dei testi scritti da Gioacchino derivanti dalla sua idea di voler costruire una comunità di persone che vivessero assieme secondo lo Spirto e la libertà. Con il suo metodo interpretativo originale, già applicato alla Bibbia, Gioacchino rilegge la vita di San Benedetto, la mette accnato alla sua e guarda al futuro della Chiesa e del mondo a partire da un piccolo monastero sulla Sila. Prezzi popolari. La scelta di pubblicarlo su Amazon, che di catto comunista non ha molto, è dovuta al fatto che il libro viene stampato solo se ordinato, (print-on-demand) per cui ha prevalso in me l’idea che fosse meglio non sprecare carta. Se quelcuno lo desidera il libro diventa reale. Altrimenti resta una serie di bit su un remoto server di Bezos.

Agnes Heller: alla ricerca della bontà.

Agnes Heller: alla ricerca della bontà.

“L’uomo buono è colui che preferisce subire un’ingiustizia piuttosto che farla”. Agnes Heller ci ha lasciato questa socratica definizione in eredità assieme all’invito a pensare e costruire un mondo basato sull’etica. Il 19 luglio ricorre il primo anniversario della sua morte.
Una delle filosofe più importanti del nostro tempo, la Heller, nata nel 1929, ebrea sopravvissuta alla Shoah, ha iniziato la sua carriera da saggista come riformatrice del marxismo (pubblicando il famoso saggio “La teoria dei bisogni in Marx” del 1974) e l’ha terminata criticando l’ascesa di Orban nel suo Paese, l’Ungheria. Negli ultimi anni della sua vita, venendo in Italia, ha frequentato Francesco Comina, giornalista professionista e scrittore, consegnandogli alcune delle sue ultime riflessioni, in particolare su l’amore.

A Comina abbiamo chiesto cosa rimane di incompiuto del pensiero di Heller? Cosa bisognerebbe portare avanti della sua filosofia? “Certamente ha rappresentato un’epoca: una delle sue idee più forti lasciata in eredità è il radicamento del pensiero nella storia. Lei stessa ha costantemente mutato il suo pensiero. Non si è mai fossilizzata. Tanti suoi libri famosi se li è lasciati indietro, superandoli, come “La teoria dei bisogni di Marx”. “Rappresenta la mia memoria, ma non lo scriverei più”, mi raccontava. Quel libro l’aveva fatta conoscere in tutto il mondo, ma lei lo considerava uno dei tanti, neanche il più bello”.

Con quel libro negli anni settanta, una sopravvissuta alla Shoah, cercava di riformare il marxismo: perché l’operazione non riuscì secondo la Heller? “Perché a suo avviso si era creata una “incrostazione” ideologica: “nella furia di smontare il marxismo poi non fummo più in grado di rimontare i pezzi”, raccontava la filosofa. Dal 1977 iniziò una nuova fase di pensiero liberale, senza rinnegare Marx, ma con un passo diverso che la portò sul piano dell’etica. Tutto si giocava sulle scelte etiche: ogni persona è un frammento di un tutto ed è nella vita quotidiana che possiamo fare la nostra parte e produrre un vero cambiamento.

Lei Comina è stato molto vicino alla Heller nei suoi ultimi anni di vita: qual’era il suo pensiero ricorrente?
“La bontà: Heller si domandava se veramente esistono gli uomini buoni. Donne e uomini buoni, sono attorno a noi, ma non ne sentiamo parlare perché il più delle volte agiscono in modo silenzioso, senza fare rumore. Se è possibile, allora la bontà esiste. Per indicarla usava un concetto socratico: l’uomo buono è colui il quale preferisce subire un torto piuttosto che farlo. A questo proposito fece una proposta alle amministrazioni comunali che l’accolsero allora in Italia: ci sono tanti monumenti dedicati al “milite ignoto”. Senza nulla togliere al valore e al sacrificio di quelle anonime persone, perché però non si fanno dei monumenti anche “al buono ignoto”? Dedicati cioè a tantissime persone che anonimamente, senza mettersi in mostra, hanno fatto del bene agli altri, gratuitamente, solo perché lo ritenevano giusto?”.

“Il demone dell’amore” è il titolo del libro che lei assieme a Genny Losurdo ha pubblicato sulla base di uno degli ultimi incontri con la Heller. “E’ il frutto di cinque giornate di “ritiro” che passammo in un monastero vicino Verona. Si realizzò una sorta di circolo socratico sul tema dell’amore, tanto caro alla Heller. Abbiamo aggiunto il testo dell’ultima conferenza che fece a Francoforte su Anna Frank, sua coetanea: entrambe vissero la stessa oppressione. Emerge una riflessione sul male radicale e sul senso di colpa vissuto da coloro che sono sopravvissuti alla Shoah”. (articolo pubblicato su L’Adige il 30/06/2020)

Didattica online: opportunità e limiti.

A scuole chiuse  possiamo scoprire tutti, studenti, genitori e insegnanti, quant’è importante la relazione umana, ma anche accorgerci  che le conoscenze possono transitare attraverso la rete e che la didattica ingessata, a senso unico da insegnante a studente, ha bisogno di un profondo rinnovamento. E’ quanto sostiene Dario Ianes, co-fondatore del Centro Studi Erickson, che martedì pomeriggio con Sofia Cramerotti (in diretta Youtube seguita da circa 3500 persone) ha presentato l’iniziativa  di una piattaforma gratuita, accessibile a tutti (tramite registrazione al sito https://www.erickson.it/it/approfondimento/dida-labs/ ). 

“Dida -LABS” è una piattaforma che abbiamo creato per il supporto a studenti con bisogni educativi speciali – ci ha spiegato Dario Ianes, docente di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano  – si tratta di bambini e ragazzi con disturbi dell’apprendimento o con disabilità intellettiva. Quando è scoppiata l’emergenza del virus abbiamo notato che tantissimi insegnanti hanno reso disponibili materiali per la didattica a distanza di ogni genere. Però ci è sembrato mancasse qualcosa di specifico per i ragazzi con difficoltà di apprendimento. Noi avevamo qualcosa di già pronto sulla piattaforma, creato secondo tutti i crismi di un percorso di apprendimento graduato e facilitato. Perchè non metterlo a disposizione di tutti?”

Quindi in Dida-LABS ci sono attività che possono svolgere tutti i bambini delle primarie? 

“E’ nato per i DSA: molto facilitato e semplificato. Essendo un buon materiale di apprendimento, può essere utilizzato anche da un genitore che vuole cimentarsi nell’aiutare i propri bambini delle primarie a fare attività durante questo periodo di chiusura della scuola”.

Quali sono le opportunità di questo momento difficile?

“Tutti ci siamo resi conto che si può imparare in maniera sistematica non solo a scuola, con un maestro o un prof che spiega. Sapevamo della possibilità di una didattica digitale, ma finora nessuno l’ha dovuta sperimentare. In Italia esistono tante esperienze di didattica a distanza, anche molto positive: restavano esperienze di nicchia o élite. Adesso tutti sono  lanciati per forza in questa dimensione, ma assistiamo a tentativi molto rudimentali: qualche insegnante fa le foto del libro e la manda a tutti gli studenti! Dovremmo prendere atto di una realtà diversa: si è rotta definitivamente l’idea che tutti gli studenti debbano prendersi la stessa minestra dall’unico docente, dentro un’aula come sul computer in remoto. Il docente può fare cose molto più creative, personalizzate, costruttive nella didattica in remoto”.  

L’aspetto negativo?

“Chiaramente è la perdita di relazione. Non ci sono “persone vere” non c’è la spiegazione diretta dell’insegnante e il sostegno dei compagni. Tutti gli aspetti sociali della scuola sono essenziali e non possono essere sostituiti dalla didattica in remoto. Manca il gruppo e il “sentirsi parte di” qualcosa”. 

Riassumendo e guardando al futuro: quando torneranno tutti in classe questa esperienza potrebbe cambiare la didattica?

“ Se uno studente deve acquisire solo delle conoscenze può farlo da solo, a casa, sui libri o sul computer. Se deve esercitare spirito critico e comunicare con qualcuno può certo farlo su una piattaforma di e-learning, ma per affrontare un dibattito vero ha bisogno di  persone in carne ed ossa davanti. La vita reale è più complessa di ciò che viene trasmesso su digitale. Ad esempio: posso usare un ottimo simulatore di volo, ma fino a quando non proverò un aereo vero, non potrò dire di saper pilotare. La classe quindi come luogo di esperienza e relazione è insostituibile. Il digitale può certamente sopperire all’apprendimento di conoscenze. Ma per avere delle  vere competenze e un vero apprendimento è necessario il contatto reale con gli altri”. 

Qualche consiglio per gestire questo periodo. 

Un consiglio per gli insegnanti? “Restate molto in contatto tra voi, orizzontalmente, senza comunicazioni dall’alto in basso. Tra colleghi e con gli studenti. Questo può servire per aiutarsi nelle piccole cose: da come funziona una piattaforma alla condivisione dei materiali, fino ad avviare percorsi interdisciplinari. Tenere vivi i legami, può essere un’occasione per trovare sinergie nuove, anche se non ci si incontra più nei corridoi della scuola. Suggerirei maggiore attenzione relazionale, umanamente parlando, un “come stai?” in una mail di lavoro che serva a sostenerci.  

I genitori cosa possono fare per i loro figli? “Devono avere una gran pazienza e sostenerli  aiutandoli anche nello studio. Se ci sono figli alle scuole primarie o medie può essere più facile. Più complicato, a meno che non si abbia una buona cultura, aiutare i ragazzi che sono alle superiori. Ottimo sarebbe poter avviare con loro delle discussioni su ciò che stanno studiando, per permettere loro di confrontarsi con qualcuno”.

Un consiglio per tutta la scuola per quando si tornerà sui banchi?  La scuola è l’unica realtà che spezza in discipline il sapere”, dice Edgar Morin. Nella realtà tutto è legato: economia, cultura, politica, società o storia. Spezzettare queste conoscenze mi sembra risponda solo a delle logiche di tipo occupazionale o accademico. La scuola potrebbe fare molto di più in termini di interdisciplinarietà, cercando di affrontare problemi reali, con il contributo di tante menti, con  chiavi di lettura diverse. Purtroppo sia i prof nelle scuole che quelli all’università sono abituati a pensare solo alla propria disciplina: ciò di certo non genera sinergie verso l’obiettivo di consegnare un sapere unitario ai nostri giovani.

Articolo pubblicato sul quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2020.