Gender si nasce, non si diventa.

Fare chiarezza su ciò che non esiste: l’ideologia gender. E’ uno degli obiettivi, anche se paradossale, del nuovo libro di Michela Marzano “Papà, mamma e gender” (UTET).
“Nel momento in cui non si accetta la possibilità di una parola che sia Altra, se non si fa spazio in sé all’alterità, non esiste nemmeno la possibilità dell’ascolto, senza il quale non si genera il dialogo. Condizione per iniziare a comunicare e capirsi è l’ascolto e le argomentazioni non hanno genere femminile o maschile. Sono logiche, giuste, corrette oppure non lo sono”. A sostenerlo è la filosofa e parlamentare del PD, professoressa ordinaria di filosofia morale all’Université Paris Descartes, invitata da Arcigay di Trento il 12 dicembre scorso in una affollata sala 3 del Centro servizi culturali Santa Chiara, per tentare di fare chiarezza sul “mare magnum” di imprecisioni e superficialità che circolano attorno al termine gender, alla cosiddetta ideologia gender, alla differenza di genere e all’educazione sessuale nelle scuole. “Non ho scritto rivolgendomi agli “antigender”, ma a tutti coloro che sentono il bisogno di capire meglio. Forse l’ho pubblicato troppo tardi: tra genitori e famiglie ormai si è diffusa la paura di un tentativo di chissà quale gruppo intento a distruggere i valori tradizionali e l’idea di famiglia”. Le argomentazioni dunque devono essere rigorose: occorre essere chiari nella terminologia e non disorientare come tendenzialmente fanno coloro che paventano l’esistenza di una “ideologia gender”. Confondono differenza di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale, pratiche sessuali, differenza di sesso e identità di genere. “Ho sentito alcuni utilizzare il termine genere, affermando che ne esisterebbero tre tipi: omosessualità, transessualità e pedofilia. Da qui nascono le incomprensioni, i fraintendimenti”. Secondo la Marzano da tali ambiguità terminologiche nasce la malcelata tendenza a generare confusione per indurre paura e smarrimento tra chi deve approcciarsi a questi temi. “La pedofilia è un reato – detto in maniera chiara – non un genere”.
Provando a fare il punto. Esistono solo tre orientamenti sessuali: eterosessuale, omosessuale e transessuale. Non lo si sceglie e non è possibile cambiare orientamento sessuale o educare qualcuno a cambiarlo (tranquilli i genitori impauriti dalla possibilità che a scuola il proprio figlio cambi orientamento a causa di qualche lezione di educazione sessuale): “E’ un sentimento precoce, profondo e duraturo: non una scelta libera”. Altra questione è il genere: “Esiste una molteplicità di studi sul genere, ma nessuno mai ha messo in dubbio che esista la differenza di sesso: uomo e donna. Ma ci sono modi diversi d’essere donna ed essere uomo. Talvolta non ci si percepisce in armonia con il proprio corpo e in questo caso si parla di transessualità: ma sono una minoranza”. Esempio: “L’orientamento sessuale non ha nessun impatto sull’identità e viceversa: ci siamo sentiti ripetere per tantissimo tempo che una ragazza è necessariamente attirata da un ragazzo. Ma una ragazza che non viene attirata da un ragazzo, ma da una ragazza allora non è più una donna? Essere donna significa necessariamente essere attirati da un uomo? No: una donna può restare tale ed essere attirata da altre donne. Si è utilizzato per anni l’orientamento sessuale come costitutivo dell’identità di genere, mentre in realtà l’identità di genere è indipendente dall’orientamento sessuale”.
Marzano ha ricordato come sia importante essere precisi quando si parla di questi temi: occorre ricordarsi che dietro ci sono persone, a volte molta sofferenza, dolore. E non è un caso che il numero di suicidi in passato e ancora oggi sia alto tra persone omo e transessuali. Vittime di un clima culturale. Qualcuno ancora pensa che l’omosessualità sia una scelta: è un atteggiamento devastante contro chi vive questa condizione.
“Sono eterosessuale e cattolica – ha proclamato la Marzano – per anni ho atteso il principe azzurro della mia vita poi mi sono accorta che non dovevo attendermi dalle persone che amavo il riempimento di quel senso di vuoto che ognuno di noi si porta dentro per sempre. Con Camille Claudel ho realizzato che: “c’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita”. Fa parte della nostra condizione umana”. La sua cattolicità l’ha dichiarata nell’incipit del libro con un accenno a Carlo Maria Martini, che nel suo ritiro gerosolimitano dopo aver lasciato Milano, incontrò il fratello della Marzano, omosessuale in cerca di pace per i suoi sensi di colpa indotti da una cultura ancora incapace di accogliere la sua differenza.
Per finire la scuola: “Deve essere in grado di generare spirito critico: dare strumenti. Sopratutto deve insegnare che bambini e bambine sono uguali. Universalità dell’uguaglianza nonostante le differenze. La famiglia delega alla scuola l’educazione dei propri figli: non decide sui contenuti. Oggi molti insegnanti sono terrorizzati dal parlare di queste tematiche come l’uguaglianza tra bambine e bambini perché hanno paura di genitori che li possono accusare d’essere seguaci del gender”. Per tutti quei genitori che invece volessero capire e non giudicare a pancia o condannare, ora c’è anche il libro della Marzano da poter leggere. Su tutto ciò incombe quello che i sociologi chiamano “knowledge gap”, il divario conoscitivo: chi è già informato e tende ad approfondire senza giudicare superficialmente non ha bisogno di questo libro. Gli altri continueranno a spaventarsi guardando qualche talk show televisivo o leggendo un messaggio “terroristico” sullo smartphone che minaccia la fine della famiglia tradizionale e l’arrivo dei fantomatici “mostri gender”.

(Articolo pubblicato su L’Adige il 15 dicembre 2015)

Ci vorrebbe un nuovo concilio.

Ci vorrebbe un nuovo concilio, non un sinodo, per passare da una Chiesa che propone ancora principi e doveri tratti dal diritto canonico a una comunità ecclesiale capace di misamore-contaericordia e accoglienza. Lo sostiene Luigi Sandri, giornalista e scrittore: gli hanno fatto eco in tanti al convegno “La sessualità e la famiglia dal Concilio Vaticano II al Sinodo”, organizzato dal Museo Storico in Trento, sabato scorso nella sala rosa della Regione.“Sandri, storico trentino, (autore dell’opera “Dal Gerusalemme I al Vaticano III: i concili nella storia tra Vangelo e potere” (Il Margine) ) ha preceduto gli interventi di associazioni, cattoliche e non, convocate e coordinate da Silvano Bert, insegnante, scrittore e in prima linea sul tema del rinnovamento della Chiesa. C’era anche Arcigay: “Il Concilio Vaticano II non ha mosso nulla per gli omosessuali: sappiamo benissimo cosa dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: è oggettivamente disordinata l’inclinazione omosessuale, peccaminosa, se esercitata. Ma la nostra condizione, anche solo dal punto di vista laico, è di discriminazione: se è vero che aborto e divorzio, pur non essendo leciti secondo la Chiesa, vengono regolati da leggi dallo Stato italiano, quando si parla di omosessualità Stato e Chiesa sono sulla stessa linea. Stato laico fino ad un certo punto, dunque: l’ingerenza della Chiesa ha fatto si che in Italia non si permetta ancora alle persone omosessuali di sposarsi. A noi non è concesso avere una famiglia come avviene in tantissimi altri Stati d’Europa”. Così Paolo Zanella, Arcigay, ha sintetizzato la condizione degli omosessuali al convegno. La posizione di chiusura della Chiesa Cattolica dunque non riguarda solo i credenti, ha poi spiegato Zanella, ma tutte le persone omosessuali: “sappiamo di credenti e omosessuali che si sono rivolte ad altre confessioni cristiane, proprio perché si sentono esclusi e giudicati in ambito cattolico. La chiesa valdese è certamente più aperta su questi temi”. Per quanto riguarda il Sinodo, voluto da Papa Francesco, Zanella è stato piuttosto scettico: “Ci vorrebbe piuttosto un nuovo Concilio per affrontare alla radice questi temi: vediamo però dei piccoli segnali di apertura. La base ci sembra molto più avanti delle gerarchie”. Un accenno alla posizione del teologo VIto Mancuso: le argomentazioni bibliche e della legge naturale sono deboli. Dovrebbe prevalere la capacità della Chiesa di includere. “Sono fiducioso per le persone omosessuali credenti” – ha concluso Zanella, citando sempre Mancuso, “la maturità della comunità cristiana si manifesta nella sua capacità di accogliere tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuna dimensione esclusa”.

Che ci voglia un Concilio Vaticano III Sandri lo va predicando da tempo: la sua relazione sulla sessualità e la famiglia nella Chiesa Cattolica ha toccato tutti i nodi principali su cui oggi il sinodo si trova a discutere. Contraccezione, divorzio (con la questione della comunione negata ai risposati), aborto e omosessualità. Tutte questioni su cui però è necessario rivedere profondamente l’atteggiamento della Chiesa: non si tratta cioè per Sandri di aggiustamenti. Basterebbe tornare al Vangelo: “per Gesù Cristo la questione della sessualità è certamente secondaria. Ne parla in rare occasioni. Se l’avesse ritenuta importante e decisiva per la salvezza dell’umanità ne avrebbe parlato molto più ampiamente”. A parte alcuni punti sul ripudio nel matrimonio, nel Vangelo non si trovano altri grandi riferimenti al sesso. Perché la Chiesa Cattolica invece ha così a cuore questo tema? In ogni caso, secondo Sandri, basterebbe guardare a come fanno le altre confessioni religiose, prima di tutto gli ortodossi: per il caso del divorzio è riammesso a nuove nozze religiose il coniuge “innocente” (quello cioè a cui non è imputabile la rottura del vincolo matrimoniale). Per la questione della contraccezione Sandri ha richiamato il percorso per cui a fine ‘800 il Magistero cattolico iniziò ad opporsi al controllo delle nascite: si rispondeva agli anglicani che avevano ammesso la contraccezione, guardando alla condizione degli operai per cui avere tanti figli non er più un bene (come per i contadini bisognosi di braccia per i campi) ma un costo. Da allora in poi la Chiesa Cattolica non ha mai veramente abbandonato l’idea che la sessualità vada praticata solo in funzione della procreazione. Per Sandri infine occorre rileggere la parabola del Samaritano e riscoprire la misericordia verso chi è emarginato. Il dottore della legge e il sacerdote, nella parabola evangelica, non si sono fermati a soccorrere chi aveva bisogno. La Chiesa deve ritrovare l’atteggiamento del Samaritano.

pubblicato su L’Adige del 6 ottobre 2015

Desiderio d’aggregazione…

filo d'erbaDall’atomo alla libertà e spiritualità dell’uomo c’è un unico filo conduttore: il desiderio di aggregazione. Ecco perché, nella vita, anche d’un filo d’erba, si può rintracciare il divino. Questa vita: conoscerla, nutrila, proteggerla è il titolo del libro che sta per uscire (il prossimo 23 aprile per Garzanti), di Vito Mancuso , noto teologo e scrittore, che sarà a Rovereto (oggi alle 17, Teatro Rosmini , per la VI edizione di «Educa» che si apre oggi). Gli abbiamo chiesto qualche anticipazione.

«La filosofia della vita nella cultura dominante, l’evoluzionismo neodarwinista, parla di selezione naturale. Nel mio libro non nego questo dato: noto però che affinché qualcosa possa essere oggetto di selezione, prima di tutto deve esistere. La logica secondo cui gli enti vengono all’esistenza è quella aggregativa. Vale per tutti i fenomeni: già a partire dall’aria che respiriamo, unione di azoto e ossigeno. Gli stessi atomi sono aggregazioni. Qualsiasi cosa che venga all’essere è il frutto di una logica aggregativa. Ci sono chiaramente momenti di disgregazione, però sono sempre funzionali ad un’aggregazione maggiore. Fin dall’apparizione della vita dalla materia inerte, fino all’intelligenza dell’uomo e infine alla libertà. Ossia la dimensione dello spirito che permette alle persone di discutere, filosofare, indagare, amare».

Lei verrà a parlare di educazione: quella dimensione spirituale che lei indica come il vertice della vita, non le sembra sempre più lontana dal mondo dei giovani e dalla cultura dominante?

«Nei giovani, e non solo, vedo un rifiuto delle categorie tradizionali. Esiste una difficoltà a recepire l’impostazione religiosa classica assieme alla visione del mondo dalla scienza e dalla filosofia. Le persone che, nonostante tale divario, si dichiarano ancora credenti, spesso lo fanno con un senso di disagio misto a insicurezza. Quando si riesce invece a conciliare la prospettiva di fede con ciò che la cultura dominante propone, la possibilità di raccordare tensione spirituale e visione del mondo, nasce un grande interesse. I giovani avvertono una ricerca autentica quando non si impone loro un principio di autorità, ma piuttosto uno spirito d’indagine simile a quello della scienza attuale. La sete di spiritualità ci sarà sempre: l’uomo consiste in questo. Quando la si concilia con la scienza allora c’è una grande festa della mente. Vedo nascere gioia e una luce particolare negli occhi di chi intravede dei percorsi. Si tratta semplicemente di rintracciare piste plausibili, rinnovando fortemente il linguaggio».

La conoscenza, l’educazione, passa necessariamente attraverso la dimensione affettiva? L’amore genera conoscenza?

«Senza eros la conoscenza non avviene. Vale per tutti. Si conosce veramente ciò che si ama e si ama solo ciò che si conosce veramente. Rileggendo l’etica di Spinoza si capisce chiaramente: da un lato l’essenza dell’uomo è il desiderio. Dall’altra esiste la volontà di porre la ragione matematica come canone ultimo. Cos’è vero? L’una e l’altra cosa: noi siamo conoscenza e affettività unite. Dio stesso è logos ed amore. La vita stessa è logos e caos assieme».

Tornando alla questione della vita: come va declinato il tema del mondo animale e del rispetto, della cura, di ogni forma di vita?

«La vita è qualcosa che ci contiene tutti: uomini, animali e piante. Senza le piante e gli animali non saremmo qui. Nel nostro corpo abbiamo un numero di micro-organismi maggiore delle nostre cellule: non è stupefacente? Dentro di noi c’è un arcipelago incredibile di microesseri. Proprio perché la nostra vita è estremamente connessa a quella degli altri esseri viventi dobbiamo salvaguardare l’ambiente e praticare un’alimentazione nonviolenta. Questa è la strada per la costruzione di una natura-spiritualità. La vita si nutre di vita e non è possibile uscire dalla catena alimentare. Anche l’alimentazione vegetariana è violenta, perché si nutre di vita vegetale. A mio avviso si può allentare questa catena: praticando un’alimentazione che contenga il meno possibile di violenza».

Lei quindi è vegetariano?

«Ancora mangio pesce, ma la carne l’ho abolita da alcuni anni».

Si vive bene lo stesso?

«A me sembra di vivere meglio per varie motivazioni. La prima è quella spirituale. Penso che l’attenzione alla sacralità della vita faccia parte di una cultura spirituale adeguata. Un’alimentazione che esclude la carne aiuta il nostro corpo. Infine gran parte dell’inquinamento dipende dagli allevamenti di animali».

Non ha timore che – dopo le varie accuse, compresa quella di gnosticismo, da parte dei difensori della tradizione e dei dogmi – verrà accusato anche di vitalismo panteista?

«Panteismo e gnosticismo sono due accuse che s’annullano tra loro. Gli gnostici antichi avevano una visione negativa della natura, al contrario dei panteisti. A volte, paradossalmente, vengo accusato contemporanemente delle due cose. “Ogni autentica spiritualità è panteista” sosteneva Albert Schweitzer. Chi pronuncia la parola Dio con non può non riconoscere che sta parlando di colui che contiene tutte le cose. Non esiste una sana spiritualità che non riconosca la presenza di Dio anche in un filo d’erba. Chiaro che Dio non si può ridurre alla natura. C’è differenza tra panteismo e pan-enteismo . Io appartengo alla seconda categoria: non credo che la materia esaurisca il divino. L’astrofisica attuale lo insegna: l’energia materiale visibile è solo il 5% del totale dell’energia dell’universo. Ma esiste il 95% di materia oscura, 25% di materia oscura unita al 70% di energia oscura, di cui non sappiamo nulla. Già solo l’astrofisica ci indica la non riducibilità dell’universo in quanto tale a ciò che possiamo vedere. Se poi vogliono darmi del panteista facciano pure. La nostra riflessione o si libera di questi schemi e pensa liberamente, per il bene, l’intelligenza e il cuore delle persone, oppure resta ancorata a vecchi e improponibili schemi».

Papa Francesco ce la farà a rinnovare la Chiesa cattolica?

«Non lo so. Ci sono segnali positivi e altri meno. Vediamo se la seconda puntata del Sinodo si chiuderà con un nulla di fatto. Fosse semplicemente solo la comunione ai divorziati risposati, se non la riscrittura dell’etica sessuale. Andrebbe messa da parte la questione della contraccezione e dei rapporti prematrimoniali: perché, così com’è, l’etica sessuale della Chiesa non viene seguita nemmeno dai cattolici praticanti. Ci sono statistiche che parlano di un 1-8% di coloro che frequentano le parrocchie a seguire le indicazioni sulle questioni sessuali. È un dato che indica la débâcle competa dell’etica sessuale. Non pretendo che si arrivi subito a riscrivere l’etica sessuale: almeno però si conceda, come il Papa vorrebbe, la comunione ai divorziati risposati. Se Francesco non ne ha la forza, allora il rischio è di un effetto boomerang: grandi attese, bei gesti, incapaci di tradursi in veri cambiamenti nella Chiesa».

 

(Articolo pubblicato su l’Adige del 18 aprile 2015)

 

Pleonexia: smania di avere più del giusto.

pleonexiaIl desiderio di possedere non è un male in se e non servono moralismi e prediche inutili per evitare la brama del possesso. Meglio regole chiare e cultura “del limite e del giusto mezzo”. A sostenerlo è il filosofo Umberto Curi, professore ordinario di storia e filosofia all’Università di Padova, giunto a Trento assieme al monaco Sabino Chialà per la prima serata della Cattedra del Confronto organizzata dalla Diocesi di Trento mercoledì 11 marzo Si parla di “tentazioni” quest’anno alla Cattedra e la prima sarà la brama dell’avere.

A Curi abbiamo chiesto in quale misura sia lecito parlare del desiderio di avere come di una“tentazione”?

“Credo sia opportuno evitare un approccio moralistico. Nella storia della filosofia viene analizzata e spesso anche censurata, la “brama dell’avere” ma non ci si riferisce al desiderio di possedere. Quest’ultimo non è evidentemente disdicevole. Piuttosto è la sua esasperazione ad esserlo. Il più della volte assume la forma della pretesa di avere più di quanto sia giusto e necessario. Non credo sia corretta una riflessione sulla disposizione di avere in quanto tale: diventa disdicevole solo nel caso in cui essa vada oltre il limite e si configuri come una vera e propria patologia. L’avere è una propensione fisiologica. Di per se uno stimolo alla crescita e a costuire qualcosa di significativo. Non credo sia immaginabile né desiderabile una condizione in cui non si avesse nessuno stimolo a possedere qualcosa. Perché è evidente che si arriverebbe ad un appiattimento totale della vita dei singoli e anche della collettività. Mentre certamente è criticabile la tendenza patologica a possedere. Possiamo prendere spunti da due autori: nella “Storia del Peloponneso” Tucidite disapprova e considera socialmente pericolosa la rapacità e avidità nel tentativo di accaparrarsi risorse. Per Platone invece in “La Reppublica” la pleonexia, smania di avere più del giusto, è quanto di più distruttivo e destabilizzante ci possa essere per la società. Possiamo rileggere anche l’Antico testamento e l’episodio nell’Esodo: il vitello d’oro. Considerato tradizionalmente una delle espressioni più compiute nella smania di accumulare ricchezza”.

Una delle tentazioni a suo avviso può essere quella di trasformare le persone in “oggetti da avere”, confondere amore e possesso, amicizia e potere?

“Nel quinto libro dell’”Etica Nicomachea” Aristortele commenta e critica questa tendenza esasperata di possesso e la vede come un estremo rispetto ad una attitudine, corretta, del “giusto mezzo”. Il desiderio di possedere non è un male in se stesso. Nella giusta misura è “neutro”, né buono né cattivo. Se ciò che muove non è la necessità o l’esigenza di procurarsi qualcosa che serva ed è utile, ma il desiderio di possesso in quanto tale, è evidente che non si potrà mai raggiungere una piena soddisfazione. Siamo di fronte ad un desiderio che si alimenta di se stesso. Possiamo evocare qualche riferimento icnongrafico: nel ciclo di Giotto, Cappella degli Scrovegni a Padova, l’avidità è rappresentata come una vecchia che brucia nei piedi ed ha una lunga lingua che gli si ritorce contro. Quasi a dire che c’è un’autocombustione dell’avaro costretto a soffrire per il suo stesso desiderio. Impossibilitato com’è ad appagarlo completamente”.

L’alternativa “essere o avere” che riflessioni le suscita?

“L’enafasi su questa disgiunzione e l’insistenza sula necessità di non curasi d’avere preoccupandosi invece di essere, nel modo in cui è stata proposta negli utlimi anni, per lo più ha un’intonazione moralistica. Non pare però raggiungere alcun risultato: suona fastidiosamente come una predica che non cambia certamente inclinazioni, appetiti e desideri. Platone ha un approccio molto realistico su questo tema: è inutile predicare, magari ai giovani, di evitare la smania di avere. E’ connaturata e fisiologica e da un certo punto di vista non è negativa. Ha un carattere dinamico connesso con il processo della crescita. Per cui serve a poco l’esortazione a curarsi dell’essere. Sarà meno entusiamante ed edificante, ma vedo più reale puntare sul senso del limite, della misura. Dove si assume come incancellabile la tendenza all’avere: solo che non si raccomanda l’impossibile, ma il tenerla entro certi limiti. Compatibili con la sopravvivenza della collettività e con un’accettabile qualità morale dell’individuo. Eviterei qualsiasi colpevolizzazione, da cui non consegue alcun risultato positivo”.

Cosa direbbe allora ad un buddhista che pratica la soppressione del desiderio o ad un monaco che si spoglia di tutti i suoi averi?

“Hanno la mia massima ammirazione come ne ho per Francesco d’Assisi. E’ paradigma di un modo di concepire la vita. Ma Francesco credo fosse il primo a rendersi conto di proporsi come modello di Gesù stesso. Copia imperfetta. La santità è di pochi, non di molti e non può essere considerata una virtù sociale. Piuttosto che puntare alla santità si dovrebbe cercare quel che è raggiungibile: il giusto mezzo, il senso del limite, lo stare dentro le regole della vita associata. Quella di Francesco e di Gesù sono delle idee regolative, ma la loro vita e il loro esempio è raro”.

Quei personaggi, asceti o profeti che rinunciano ad avere, associano la loro scelta alla conquista della libertà: beato l’uomo che non possiede nulla perché è libero da qualsiasi vincolo. Sembrano dirci.

“Certo. Il loro è un vero processo di kenosis, svuotamento. Si rendono accoglienti a ciò che veramente conta, lo spirito, la Parola di Dio. Ho una grandissima ammirazione nei confronti di questa linea che però, proprio per non svilirla, va vista nel suo carattere individuale: non può essere virtù sociale. Bisogna poi rendersi conto che gli esempi ci fanno capire tutto lo scarto che esiste tra la nostra condizione e quella del modello: Gesù si è svuotato: lui era esempio, mai veramente riproducibile. Se ne parliamo poi come virtù sociale credo che nemmeno un buddista pensi di poter estendere la propria scelta ad ogni componente della societa”.

Questo uno dei motivi perché il comunismo ha avuto qualche problema nella realtà? Una buona idea, ma che possono praticare solo in pochi?

“Volere la giustizia completa su questa terra, come pensava il comunismo, nella realtà si è rivelata una visione idolatrica. Proprio perché puntava troppo in alto”.

Il popolo, “nel deserto”, se è troppo libero, troppo chiamato alla responsabilità personale, poi si costruisce un vitello d’oro?

“Ci sono due narrazioni della consegna del decalogo da parte di Dio agli uomini. Mosè trascorre 40 giorni senza mangiare bere e dormire. Riceve le tavole incise direttamente da Dio. Torna dal suo popolo che però in quei 40 giorni ha preteso da Aronne che costruisse il vitello d’oro. Allora Mosè frantuma le tavole, impone che vi sia una dura repressione dei Leviti che hanno voluto l’idolo. Poi ritorna sul monte e a quel punto Dio non consegna unanuova copia, ma detta a Mosé quel che deve incidere. Circostanza per cui le tavole di Dio sono andate perdute. E tra le due consegne del decalogo c’è il vitello d’oro. Riflettere su questo episodio: credo sia promettente per capire la tentazione dell’avere.

Lo avrebbe una antidoto all’avidità di certi personaggi ai vertici della società che già tanto hanno e ancora vogliono, magari intascando tangenti?

”E’ necessaria la combinazione di due rimedi con la consapevolezza che non possono essere risolutivi. Ci vuole un lavoro sul piano culturale che non sia moralistico, ma tenda a far comprendere la non assolutezza dei valori dell’avere e quindi un approccio sanamente relativistico in grado di scoraggiare l’adozione del vitello d’oro. Poi occorre combinare tutto ciò con una rigorosa definizione di regole e di controllo della loro applicazione: la vera tentazione scatta quando mancano regole chiare e non esistono controlli. Così potremmo ricondurre la patologia entro limiti sopportabili.

Articolo pubblicato su L’Adige (10 marzo 2015)

Cambiare. Il capitalismo non è eterno.

Vitello d’oro, l’idolo immutabile dei nostri tempi è il capitalismo. Chi crede che sia un sistema economico «eterno» e anche di fronte alle diseguaglianze e ingiustizie che genera non pensa di cambiare strada è come se stesse idolatrando una divinità fasulla. Per Leonardo Becchetti, economista e docente presso l’Università Tor Vergata di Roma, si può invece cambiare modello in economia e si possono trovare le giuste strategie perché il cambiamento non sia traumatico, ma culturale e progressivo.
Alla Cattedra del Confronto il suo intervento, stasera, sarà attorno al tema del «cambiare il mondo» con modelli e pratiche economiche. Nel precedente incontro della Cattedra il banchiere Alessandro Profumo ha detto che il capitalismo è l’unico sistema economico attualmente possibile, altri sembra che non funzionino così bene.

Nessun cambiamento è dunque plausibile in economia? «Dobbiamo intenderci sul termine capitalismo. Se implica il sistema delle aziende intente a massimizzare il profitto e dove il vero portatore di interesse è chi mette il capitale e non i lavoratori, le comunità locali, i fornitori, allora questo non è il modello di “economia civile” che da alcuni anni stiamo elaborando e verso il quale stiamo indirizzando il cambiamento. Anche la dottrina sociale della Chiesa sostiene che la massimizzazione del profitto è il “vitello d’oro” dei nostri tempi.

La sua alternativa?
«Dobbiamo allargare l’orizzonte su tre fronti: l’uomo è persona e non “homo oeconomicus”, l’impresa non è massimizzazione del profitto, ma creazione di valore per tutti i portatori di interesse e il valore non è il pil ma il bes, benessere equo sostenibile. Questa è economia civile e quel che la dottrina sociale della Chiesa sostiene negli ultimi documenti. Il resto è “sistema tolemaico”, roba vecchia che ha mostrato ampiamente di non funzionare, con spinte autodistruttive come abbiamo constatato nel sistema bancario e monetario».
Dunque profitto sì, ma ben indirizzato?
«Verso imprese di tipo cooperativo, banche etiche, dove l’obiettivo non sia la massimizzazione del profitto per pochi. Siamo già sulla strada di questo cambiamento».

Lei parla di equità: che cosa intende esattamente?
«Per qualcuno può essere normale vivere in un mondo dove le 85 persone più ricche del mondo hanno la ricchezza dei 3 miliardi di persone più povere. Per me questo non è normale e neanche funzionale all’economia: è necessario che i ceti medio bassi abbiano la possibilità di consumare, comprare, per far funzionare l’economia. Non è un caso se le due più grandi crisi finanziarie, del 1929 e del 2007, siano scoppiate nei momenti di massima diseguaglianza. Equità significa ridurre questa profonda differenza».
Un povero, un disoccupato, come fa a partire da se stesso?
«C’è il “voto con il portafoglio” (titolo di un mio libro), se diventa un comportamento di massa. Comprare, in massa, solo quei prodotti che forniscano una certa garanzia di sostenibilità ed equità. Può essere una vera rivoluzione. Il mondo oggi non può restare al servizio dell’economia e sacrificare diritti e ambiente. Dal basso si deve votare con il portafoglio, dall’alto occorre stabilire delle regole fiscali o di partecipazione agli appalti che premino le filiere ambientalmente e socialmente più sostenibili».