Scetticismo e libertà.

Essere scettici, anche del proprio scetticismo. Per lasciare spazio di libertà al prossimo, alle idee, al pensiero. Perché solo chi è veramente libero può vivere dei momenti di felicità. Lo sostiene Giulio Giorello, filosofo milanese, esperto di Bertrand Russell, un ateo sui generis, che legge e apprezza le encicliche papali e ha dialogato con porporati attorno alla scienza e alla morale.

A Giorello abbiamo domandato dov’è l’attualità del pensiero del filosofo inglese. “Oggi più che mai ci insegna a vivere in una società libera. Mentre filosofi pragmatisti come William James parlavano di “volontà di credere”, Russel ribatteva: “meglio sarebbe aver volontà di dubitare”. Quello che una volta si chiamava scetticismo diventa garanzia per evitare prevaricazione, intolleranza e oppressione. Nei “Saggi scettici” del 1928 troviamo la potente funzione liberatrice dello scetticismo. Senza farne però un dogma: noi dovremmo essere capaci, qualche volta, di essere scettici nei confronti dello scetticismo stesso. Si tratta di un riferimento ad una forma di filosofica prudenza che non esclude l’audacia intellettuale in più di un settore: sia nella vita sociale sia nella ricerca scientifica.

 

“Non esiste nessuna verità” infatti è un paradosso: se non esiste verità allora nemmeno lo scetticismo può essere vero o sempre valido.

“Per Russell lo scetticismo è un metodo, non un dogma o un sistema filosofico omnicomprensivo. E’ invece un modo di non farci vincolare troppo a forme di vita che potrebbero rivelarsi oppressive, sia nei nostri confronti che verso il prossimo. Da questa sua posizione si capisce l’attività politica: era un nemico della guerra, ai tempi del primo conflitto globale, ma nonostante ciò fu deciso ad un intervento militare quando si profilò in modo concreto il pericolo del nazismo. Cambiavano le idee di questo grandissimo pensatore: non vorrei fosse dimenticato che Russell è stato uno dei grandi protagonisti della logica e della ricerca nel campo della matematica. Anche in questo caso è interessante come sia passato da un bisogno originario di certezza a una prospettiva che ho chiamato di “scetticismo metodologico”. Non senza qualche travaglio personale: da giovane era pervaso da quella che lui stesso definì una “lucida disperazione”. Ciononostante scrisse delle opere fondamentali della logica, si occupò della teoria della relatività come di temi morali e infine si impegnò in significative campagne politiche”.

 

La disperazione richiama il suo opposto: cos’è la felicità per lei?

“E’ indissolubile dalla libertà. Uno schiavo non può essere felice. Questa è la mia personale lettura dell’idea di felicità in Russell: non è possibile una qualche forma di felicità umana senza una condizione di libertà. Con tutti i limiti del caso: la felicità umana può durare un momento. Ma forse essere felici significa saper cogliere l’attimo giusto. Non è la condizione degli dei o del diavolo: felicità, come molte altre cose umane, è tipicamente fragile”.

Tra felicità, libertà e ateismo c’è una qualche relazione? “Non credo che solo gli atei siano felici o, viceversa, solo i credenti abbiamo la ricetta della felicità. Ognuno  arriva alle proprie convinzioni attraverso una lenta formazione nella vita.  Conosco tanti credenti o atei felici nel loro quadro di riferimento: personalmente penso che la questione dell’ateismo si leghi a quella della libertà, ma non alla felicità individuale. Società che condannano pubblicamente l’ateismo, tramite la coercizione, sono oppressive. Così come lo sono società che impongono una religione. Nell’uno o nell’altro caso nessuno, sulla base delle proprie convinzioni, può permettersi di arrecare danno ad altri. Ciascuno la pensi come meglio si sente, viva con le sue idee guida, ma non pretenda di guidare gli altri. In una società libera e aperta può esserci collaborazione tra credenti e non credenti”.

Certo che il periodo che stiamo vivendo non è dei più felici sul versante della tolleranza. Spesso prevale il fanatismo. “Non amo nessun fanatismo: il fanatico fa più male di altri alle idee religiose che vorrebbe imporre. Il fanatico religioso fa male innanzitutto alla propria religione. Dio sia liberato dai fanatici!”.

 

Perché nonostante  la “morte di Dio” decretata da alcuni filosofi e atei, la religione continua ad avere un ruolo così importante da determinare gli assetti geopolitici?

“E’ un dato di fatto. Ricordo però che la nostra tradizione intellettuale ha avuto una grande fase: l’illuminismo.  Non è un caso che i “Saggi scettici” di Russell siano dedicati a Voltaire. La tradizione dei lumi, l’atteggiamento illuministico, mi sembra un elemento che possa avere un ruolo non banale in una società  multireligiosa”.

 

Passando alla questione della scienza: uno dei problemi più impellenti è il “global warming”, l’innalzamento della temperatura terrestre. La scienza, con la sua tecnica, ha di certo contribuito a questa drammatica situazione in cui la natura non riesce più ad assorbire le sostanze inquinanti prodotte dall’uomo. Con il rischio, concreto, di distruggere la natura e l’habitat umano. C’è da fidarsi ancora della scienza? “Il riscaldamento globale è frutto di uno sfruttamento senza restrizioni e limiti. Ma è proprio dalla comunità scientifica più illuminata che arrivano le parole di più attenta cautela. Sarebbe ora che i politici ci pensassero seriamente: ma a guardare le recenti posizioni della presidenza americana c’è poco da stare tranquilli. Credo però che debba essere l’opinione democratica dei vari Paesi a farsi sentire”.

 

Papa Francesco ha lanciato un appello a tutte le coscienze sul tema del riscaldamento globale nella sua enciclica “Laudato si”.

“Mi sembra una svolta nella tradizione della Chiesa cattolica romana. Vedremo se a queste indicazioni di buona volontà seguiranno degli atti politici concreti. Certo che molte parole di Francesco toccano tutti noi, non solo i cattolici romani. Torna un respiro universalistico come quello che trovai nel cardinal Carlo Maria Martini, quando ebbi il piacere e l’onore di partecipare a due delle sue “Cattedre dei non credenti” a Milano. Ho imparato molto in quella occasione e mi impressionò l’enorme senso di tolleranza di Martini. Il suo sforzo primario era di proporre le sue motivazioni in modo che risultassero comprensibili anche ai non credenti. E la distinzione per lui non stava tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti.  

 

Intervista pubblicata su L’Adige del 13 gennaio 2018.

Nel bosco per uscire dalla vacuità.

 

Uscire per un pò dalla vacuità per entrare in un bosco ad ascoltare la vita. E’ quanto ha proposto Paolo Cognetti,  in una passeggiata letteraria il 2 maggio, nel giardino botanico alpino delle Viote, organizzata all’interno del Trento Film Festival. Cognetti, prima documentarista, impegnato nel sociale, e poi dal 2004 scrittore, ha letto brani  del suo ultimo romanzo “Le otto montagne” (Einaudi).  

 

Gli abbiamo domandato cos’è che una passeggiata nel bosco  può aggiungere alla lettura del suo romanzo?

 

“Non è semplice rispondere. Forse può venirmi incontro Rigoni Stern che diceva: “Non si è mai soli in un bosco”. Intendeva probabilmente che il bosco è il luogo delle vite, non di solitudine. Diverso è andare in montagna dove ad una certa altezza non c’è vegetazione, ma roccie e ghiacciai. Il bosco è pieno di vite oltre alla nostra: animali e alberi a cui ci dobbiamo accostare con grande attenzione. Per riuscire a percepire queste presenze. Il bosco inizialmente si ritira e si nasconde. Leggere, dentro un bosco, può essere un modo per guardarlo meglio, per porvi maggiore attenzione. Quando sono venuto a vivere in montagna, a 2000 metri, in Valle d’Aosta, mi sembrava di essere, all’inizio, in un posto vuoto. Avevo con me “Arboreto selvatico”, il libro di Rigoni Stern, dove ogni racconto è un albero, come una persona da narrare. A 50 metri dalla mia casa c’è un bosco di abeti e larici: con il libro di Stern mi sembrava di capire meglio gli alberi, miei nuovi vicini di casa. Un libro letto in un bosco può aiutarci a capire, sentire meglio ciò che abbiamo attorno”.

 

In Trentino ultimamente si usa tagliare gli alberi e lasciare tronchi e rami sul posto. Il risultato estetico non è certo dei più esaltanti. Accade anche in Valle d’Aosta?

“E’ un argomento su cui sto leggendo tante cose: meglio lasciarli come sono i boschi? Pulirli o tagliarli? Ci sono valutazioni che non dipendono solo dall’estetica. Il bosco di pino silvestre accanto a casa mia è pieno di tronchi tagliati e abbandonati. La forestale ha pensato che sia un bene per il bosco lasciare del materiale a marcire sul terreno. Non so se questo sia del tutto vero, forse non è un’idea campata per aria: certo è che camminare in un bosco così, pieno di alberi tagliati, non è il massimo”.

 

Il titolo del libro, “Le otto montagne”, ha qualcosa a che fare con l’ottuplice sentiero buddhista?

“Esattamente: normalmente mi trovo a doverla mostrare questa relazione del mio romanzo con il buddhismo. Non viene percepita subito, ma è proprio questo il senso del titolo”.

 

Quindi come stanno assieme queste otto montagne coi sentieri del Buddha?

“Al cuore del libro c’è un’amicizia tra due uomini. Si conoscono da ragazzini e, tra lontananze ed alterne vicende, diventano adulti assieme. Uno dei due personaggi è il montanaro: per tutta la vita non si allontana dalla sua montagna. L’altro, Pietro, il narratore, cresciuto a Milano, il mio alter ego, fa molta fatica a trovare il suo posto nel mondo. Diventa una di quelle persone destinate a vagare. Durante un viaggio sull’Himalaya, uno dei suoi amori, trova un portatore nepalese ed è lui a spiegargli l’idea delle otto montagne. Al centro della ruota, simbolo buddhista che rappresenta l’ottuplice sentiero, c’è una montagna altissima, che nella tradizione induista-buddhista è il monte  Meru. Chi ha imparato di più: colui che ha fatto il giro delle otto montagne o chi ha scalato quella più alta? Pietro allora capisce il senso della sua amicizia con Bruno, il montanaro, che aveva trovato la sua montagna da scalare. La vita del protagonista  invece era stato un vagare tra le altre otto montagne”.

 

Il Buddha con l’ottuplice sentiero indica la strada per superare e spegnere il desiderio: è quel che desidera anche lei? “Sono molto combattuto tra le due tradizioni: quella orientale che vede nel desiderio qualcosa da oltrepassare e quella occidentale dove nella passione c’è un valore positivo, nell’innamorarsi, appassionarsi e anche soffrire. La filosofia orientale che ci vorrebbe senza passioni non riesco ad abbracciarla fino in fondo. Anche se sto bene  nella pace, nella tranquillità che appartengono all’oriente e alla montagna. Mi sento di oscillare tra  le due filosofie così come sono a metà tra montagna e città. In realtà non ho mai deciso definitivamente di andare a vivere in montagna e non posso fare a meno, ogni tanto, di tornare a Milano”.

 

Cos’è che le piace più dei nostri tempi e cosa non riesce a sopportare?

“Non sopporto la grande vacuità: sono innervosito dalla onnipresenza dei mezzi di comunicazione, il cui ruolo troppo spesso è il semplice intrattenimento. Un rumore di fondo che denota una grave mancanza di qualità. Insopportabile il rapporto con la cultura, con la lettura, con le relazioni: tutti a livello superficiale. E’ una grave minaccia alla qualità del nostro vivere. Più difficile dire cosa mi piaccia dei nostri tempi. Spero che il progresso tecnico ci permetta di vivere in modo più ecologico. Il montanaro della tradizione, contrariamente a quanto si pensa, non è attento all’ambiente, ecologico. Anzi: proprio chi vive in montagna a volte è più favorevole ad opere di cementificazione, ad una scarsa attenzione ai rifiuti. Forse perché ha un’idea distorta di progresso. La tecnica oggi potrebbe aiutarci a vivere senza inquinare e rispettando l’ambiente.

 

C’è un altro romanzo in arrivo? “Ho un altro viaggio in mente, in Nepal, il prossimo autunno, da cui potrebbe venire fuori una nuova storia”.

Pubblicato su L’Adige del 3 maggio 2017

Del mangiar carne al tempo di internet.

Da simbolo a icona: ovvero la carne al tempo di internet ha perso il suo significato profondo, quello tradizionale, fatto di riti e tradizioni, ed è diventato un’icona, infinitamente riproducibile, quasi virtuale. “Del mangiar carne” è il titolo del seminario, organizzato dallo zooantropologo e veterinario Giuseppe Pallante, con il patrocinio della Regione Trentino Alto adige, Il Muse e il contributo della Azienda agricola Foradori, che si è tenuto  venerdì 24 marzo presso Il Muse (sala convegni). Sono intervenuti  Elia Richetti, rabbino di riferimento per il Trentino e Alto Adige, Massimo Montanari, dell’Università di Bologna, Yahya Sergio Yahe Pallavicini, (Direttore Comitato Etico Halal Italia, COREIS Comunità religiosa islamica italiana), Massimo Giuliani (Università di Trento) Roberto Marchesini (Centro Studi Filosofia Postumanista) e Francesco Sinni (Fotografo Freelance – Pisa).

“La caratteristica della parola carne è di essere un simbolo trasversale – ci ha spiegato Pallante – in qualsiasi contesto religioso, filosofico o etico ha un significato che va oltre la sua rappresentazione. Pensiamo solo alla “carne di Cristo”. Inoltre a livello umano la discriminante che ci ha resi onnivori è stato il fatto di mangiare carne: fa parte del nostro processo evolutivo. A prescindere o meno dalla volontà e consapevolezza di mangiare carne siamo ad essa legati”.

 

Perché a suo avviso nella cultura occidentale attuale molti scelgono di diventare vegetariani o vegani? “Ho paura che in diversi casi si tratti di una banalizzazione. Ci sono due estremi: da una parte vediamo un consumo eccessivo di carne, senza alcuna consapevolezza del suo valore e dall’altra può esserci la radicalizzazione appiattita ed estremista del suo rifiuto per motivi salutistici, senza la costruzione di un’etica specifica. La carne, proprio perché simbolica, è identitaria. Se al suo rifiuto corrisponde una consapevolezza, come accade in alcune religioni o per determinati periodi di tempo, va benissimo. Altrimenti è un appiattimento semplificatorio dove consumo e rifiuto della carne si equivalgono perché non hanno motivazioni forti a loro sostegno”.

 

Per mangiare carne occorre uccidere: si può giustificare quella violenza? “Chi compra la fettina di carne incellophanata dimentica che si tratta di un animale. Il problema non è evidenziare o giustificare la crudeltà, ma dare un senso ad un gesto che può rimandare a motivazioni religiose, identitarie, che costruisce relazioni. Non dimentichiamoci che è il mangiare carne che costruisce “socialità”: l’erbivoro magia da solo. Il carnivoro deve cacciare insieme agli altri e poi consumare e condividere il pasto. Oggi però siamo passati dalla carne simbolo alla carne icona: il primo contiene dei valori, rimanda a delle tradizioni, dei riti. L’icona invece è l’immagine infinitamente riproducibile, come nelle opere di Andy Warhol. Una percezione superficiale che nulla dice o pensa del contenuto profondo. Il simbolo parte da lontano: l’icona è ferma sul presente, non ha passato e non può generare futuro”.

 

Anche la carne, ai tempi della globalizzazione e delle interconnessioni della rete è diventata virtuale? “La carne ci ha permesso, all’epoca  in cui siamo scesi dagli alberi ed abbiamo smesso di essere solo erbivori, di mangiare in modalità sociale.  Di condividere la preda cacciata. Oggi siamo vicini alla fabbricazione dell’hamburger in laboratorio. Ma anche in questo caso emerge la nostra necessità di essere legati alla carne: i vegetariani mangiano comunque hamburger anche se vegetali, salami  “vegetali”. Il legame con la carne, almeno nella forma, resta. Viene surrogato  un bisogno che comunque resta vivo nelle profondità”.   

 

Pubblicato su L’Adige del 23 marzo 2017

 

Complessità.

Sopravvalutiamo la semplicità del tempo antico: abbiamo nostalgia di un passato che ci sembrava semplice solo perché non era ancora messa a fuoco la complessità. La vera  novità di oggi è l’interdipendenza e lo sviluppo tecnologico che hanno vinto vincoli e confini. Ne ha parlato  Chiara Saraceno nella prima delle tre serate della Cattedra del Confronto, (appuntamento annuale offerto dall’Ufficio diocesano cultura e università di Trento) lo scorso  lunedì 20 marzo.  

 

Alla Saraceno abbiamo chiesto cosa significhi che oggi c’è più complessità.

“Forse, più semplicemente, adesso siamo più consapevoli di un tempo delle varie dimensioni delle nostre relazioni con gli altri e con la società. Dalla dimensione familiare a quella globale ci sono vari gradi di complessità. Quindi la questione non è se oggettivamente viviamo in contesto di maggiore complessità, quanto il fatto che ne abbiamo maggiore consapevolezza. Il Voltaire delle “Lettere Persiane”  si domandava: come avrebbe reagito un persiano a Parigi? Tutto gli sarebbe apparso strano e complesso. Oggi noi siamo quel persiano, non solo abbiamo tanti persiani tra di noi. Non possiamo più dire che non esista la complessità e di conseguenza non ci è dato rifugiarci in semplificazioni”.

 

Una delle paure della complessità nasce dalla sensazione di “dipendere” da fattori che non possiamo controllare? “Un tempo esistevano interdipendenze molto forti, vincolanti: il ceto a cui si apparteneva, la famiglia. Oggi siamo coscienti di dipendere quasi direttamente da quello che dice Bruxelles, dalle decisioni di Trump o Putin. E’ più chiaro che la rete in cui siamo è molto vasta: noi siamo solo un piccolissimo nodo”.

E’ cambiata, sociologicamente parlando, la percezione degli altri? “La coscienza dell’interdipendenza ci sta cambiando. Vorremmo ignorare a volte il fatto di dipendere dagli altri: ma siamo di fronte al fatto che quel che gli altri pensano di noi, come si comportano con noi, può avere un’influenza enorme sulla nostra vita”.

 

Aspetti positivi di questa interconnessione? “Il dipendere dalle tecnologie e l’uso dei social ha di molto aumentato la capacità di essere informati. Superando i nostri limiti. Dall’altra parte siamo maggiormente esposti al rischio di un’informazione falsata e manipolatoria. Oppure di una diffusione delle nostre immagini e informazioni che non desideriamo. Non siamo dunque solo vittime della complessità: credo che dovremmo sviluppare maggiore capacità di autocontrollo, autolimitazione. Un mondo complesso ci impone di avere un “indirizzo intelligente” da raggiungere. Necessariamente siamo sollecitati ad essere consapevoli di ciò che siamo e che facciamo. Anche a livello politico: non possiamo continuare a pensare che si possa delegare, ma dovremmo essere in grado di prenderci più direttamente delle responsabilità”.

Tornando al persiano che è in noi e accanto a noi: come è cambiato il rapporto con le diversità? “Il diverso da noi c’è sempre stato: era segregato. Nei manicomi, ad esempio. C’erano ruoli di genere molto rigidi e la semplificazione aveva costi altissimi ma poteva essere rassicurante. Oggi invece con fatica la diversità cerchiamo di affrontarla, senza immediatamente definire una graduatoria che stabilisca la normalità e vari gradi di diversità. Un’operazione faticosa, ma alla lunga arricchente. Potremmo scoprire la nostra di diversità”.

 

Accanto a lei a discutere di complessità ci sarà un monaco: a suo avviso la religione si presta di più alle semplificazioni o è in grado di affrontare la complessità? “Dipende dalla religione. Ma anche da come viene vissuta. Le religioni sono state sia strumento di rottura rispetto ad una spiegazione del mondo, introducendo complessità, ma anche strumenti di semplificazione. Per diverse religioni la spiegazione del mondo è una e abbastanza rigida. Le religioni possono offrire rassicurazioni, ma potrebbero instillare anche dubbi e aprire dimensioni del sé inesplorate e più complesse. Non darei dunque una spiegazione univoca su quel che possono fare le religioni”.

 

Uno dei settori sociali dove la complessità sembra aver fatto più breccia è la famiglia: esiste ancora una definizione semplice di famiglia? “Non è mai stata un luogo semplice. Si intrecciano ruoli, generi, funzioni, generazioni. Una costruzione per cui oggi non esiste più una definizione univoca. Non c’è mai stata in realtà. Nel tempo e da una società all’altra sono stati attribuiti valori diversi. L’esperienza contemporanea ci fa vedere che la diversità è nella nostra stessa società: si chiede il diritto di essere famiglia da parte di soggetti in passato esclusi da tale possibilità. Stili di vita che chiedono legittimità, anche se ancora qualcuno non vorrebbe concederla loro. Non sto pensando solo alle famiglie composte da persone omosessuali: già il divorzio ha prodotto una grande rottura. L’idea che ci si potesse risposare, che i figli potessero avere nuove figure genitoriali in nuovi assetti familiari, già tutto ciò ha rotto i confini della famiglia tradizionale. Ora le tecniche di riproduzione assistita, prima ancora di arrivare alla gestazione per altri, hanno introdotto una fortissima novità che va ripensata. Cosa vuol dire fare intenzionalmente dei figli anche se non dal punto di vista biologico? Un figlio può essere intenzionalmente e non biologicamente di una padre o di una madre? La generazione è diventata molto più complessa”.

 

Cosa le suggerisce la recente sentenza di Trento in merito al riconoscimento della secondo genitore maschio di un bambino nato con tecniche artificiali? Sembrano essere i giudici in Italia a decidere le politiche familiari e non la politica. “Da sempre non è la natura a fare la famiglia ma le norme: religiose o giuridiche. E’ la giurisprudenza a innovare, evidenziando dei comportamenti che richiedono di essere riconosciuti e normati. La sentenza di Trento è una attuazione della dichiarazione internazionale dei diritti del bambino di essere collocato in una filiazione.  Mette in luce la complessità dell’esistenza di sistemi giuridici e norme diverse in paesi diversi, ma ormai collegati tra loro nella globalizzazione”.

 

La complessità è “donna”? “Le donne hanno maggiormente l’esperienza della complessità: un’immagine del femminismo degli anni ‘70 era quella della donna giocoliere, capace di tenere in equilibrio tanti piatti senza farli rompere. L’esperienza della complessità è molto femminile, nei ruoli familiari, nel lavoro, nella società, anche se non teorizzata ma più vissuta”.

 

Ad una maestra di scuola elementare che deve attrezzare i propri bambini ad affrontare questo mondo complesso cosa suggerirebbe? “Di insegnare loro ad essere individui, con la loro libertà e differenza, chiamati a cooperare con  altri individui”.

 

Intervista pubblicata sul quotidiano L’Adige del 19 marzo 2017.

Di che genere è Dio?

Dio è del genere che gli attribuiamo, a seconda di cosa vogliamo dire o di chi ne parla. E’ una delle tesi sostenute in “Il genere di Dio” (edizioni la meridiana), saggio della teologa Selene Zorzi, romana. Lo ha presentato a Trento venerdì 3 febbraio, alle 17.30  a Palazzo Trentini, Sala Aurora, (Via Manci 27) in un’occasione promossa da Arcigay del Trentino.

Perché un libro sul genere di Dio?

“Negli ultimi anni in Italia si è iniziato a parlare del Gender. A molti è parso però che si trattasse di un dialogo spesso confuso. Anzi: specialisti del settore, come le teologhe da anni impegnate negli studi di genere, si sono rese conto che nella Chiesa Cattolica mancavano gli strumenti di base per parlare di tali argomenti. Il libro nasce dunque con tre intenti: chiarire la terminologia che occorre conoscere per parlare di genere; divulgare la conoscenza di questa materia, finora rinchiusa nelle nicchie degli accademici; infine contrastare la tendenza di quelli che una mia amica definisce i “catto-coranici”, una sorta di talebani del cattolicesimo, che diffondono un terrore generalizzato sul Gender, per uscire dalla dinamica del “muro contro muro” e tentare, come dice Papa Francesco, di creare dei ponti con la società odierna anche in merito a questa questione.”

 

Proviamo subito con il termine principale: il “gender”. Cos’è? Una ideologia? Un concetto?

“Esistono vari significati della parola genere: il conflitto ruota attorno a due di questi. Da una parte c’è l’accezione più nobile data da chi si occupa di studi di genere e che distingue sesso e genere: Il primo legato alla biologia e alla distinzione maschio e femmina in senso fisico, il secondo che ha a che fare con i significati culturali di questi. Dall’altra parte c’è l’accezione fuorviante che gli attribuiscono i detrattori della cosiddetta ideologia del Gender, che non sanno distinguere tra sex e gender, provocando grandi confusioni”.

 

Ma cosa sarebbe allora l’ideologia del genere?

“Mi pare che essa esista solo nella bocca di chi la critica e per come viene presentata sembra che chi ne parla non sappia nulla degli studi di genere o non li abbia compresi”.

 

Qual’è il vostro obiettivo nello studiare il genere?

Il concetto di genere aiuta a rilevare come le differenze che appaiono tra uomini e donne a livello sociale e politico, nel ricoprire ruoli di potere, non derivano unicamente dal fatto che siamo maschi o femmine. Piuttosto la loro origine va cercata in alcuni dispositivi di potere in atto in mentalità sessiste e discriminanti: gli studi sul genere sono una sorta di cartina tornasole, o se vogliamo un ago della bilancia, strumenti che rilevano – in questo caso – la misura della discriminazione di una società. Dare la colpa alla bilancia del nostro peso è un pochino contraddittorio. Fuori di metafora: incolpare gli studi di genere perché ci fanno accorgere della disparità di trattamento tra uomini e donne o nei confronti delle minoranze, è decisamente fuori luogo. Gli studi di genere aiutano in questo senso anche all’interno della teologia e della Chiesa Cattolica”.

 

Nella Chiesa Romana non c’è bisogno di grandi strumenti per verificare che c’è una disparità di trattamento tra donne e uomini. Basti pensare al ruolo sacerdotale riservato esclusivamente ai maschi. Per questo spaventano gli studi di genere?

“All’inizio questi studi hanno fatto molta paura forse perché sembravano particolarmente complessi. Il mio libretto vorrebbe aiutare a mitigare questo timore. La  complessità della materia sta soprattutto nel fatto che per misurarsi con essi è necessaria una fatica: quella di smascherare le nostre ideologie sessite. Questo è un lavoro che ciascuno  deve compiere innanzitutto su se stesso, sui propri modelli introiettati e sui percorsi della sua identità. Questi sono i passi più difficili. Il differente trattamento e il sessimo lo si vede più chiaramente in istituzioni patriarcali, ma anche  in quelle più laiche e aperte si fa fatica a liberarsene”.

 

Ma la Chiesa Cattolica come può  uscire dal maschilismo?

“Guardando il messaggio evangelico e alla pratica che Gesù stesso ha avuto nei confronti delle donne. La comunità che Gesù ha pensato non era strutturata in modo patriarcale. Non così nei primissimi decenni. Anzi, possiamo dire che proprio grazie alle spinte evangeliche, la cultura occidentale ha promosso l’emancipazione delle donne.Oggigiorno  la stessa Chiesa si sta ponendo delle questioni circa la leadership femminile nelle comunità ecclesiali, che al momento è riservata solo agli uomini ordinati. Ma come si è visto Papa Francesco ha dato vita ad una Commissione che studi la possibilità  dell’ordinazione diaconale delle donne.

 

Rispondiamo alla domanda del titolo: di che genere è dunque Dio?

“Siccome Dio non ha sesso, Egli è del genere che gli attribuiamo a secondo di cosa vogliamo dire, o a seconda di chi ne parla. Il genere di Dio è maschile, femminile, neutro, ma forse anche entrambi. Egli è il sempre altro. Di Dio si può parlare solo in metafore che possono provenire da esperienze  maschili o femminili, ma anche naturali. Più abbiamo metafore per dire la nostra esperienza con Dio  più la nostra vita spirituale risulterà ricca”.

 

Quindi anche l’omosessuale parlerà di Dio con le sue metafore? “Attenzione! Si ricordi che un omosessuale è sempre di un sesso o dell’altro. Per cui la questione qui non riguarda la sua sessualità, ma semmai la sua relazione affettiva. Come per ogni persona che fa esperienza di una relazione d’amore, anche per una persona omoaffettiva la fede in Dio sarà in grado di dire qualcosa sulle sue relazioni affettive. Viceversa le sue relazioni affettive diranno qualcosa di Dio.

Per quanto riguarda il Dio nel cristianesimo la sua immagine è trinitaria: Dio è amore. In se Dio è una relazione d’amore, di rispetto, dove l’altro è valorizzato. A questo tipo di Dio dovremmo commisurare le nostre relazioni. Come esistono relazioni della famiglia naturale che non hanno nulla di trinitario, così potrebbero esserci segni dell’amore divino anche in una relazione omoaffettiva.

 

Per quanto riguarda Dio nelle altre religioni? Parlare di genere è ancora più faticoso nell’Islam?

“Come Il femminismo è trasversale a tutte le religioni patriarcali così lo è la questione del genere:  proprio a Trento recentemente  in una tavola rotonda organizzata da Religion Today Filmfestival, con una rappresentante della religione buddhista e una islamica ci siamo rese conto che l’approccio delle femminista nelle varie religioni è lo stesso. Ci siamo ritrovate tutte a mettere in evidenza come il messaggio originario delle nostre religioni non è assolutamente escludente rispetto alle donne, ma si data loro successivamente una impostazione in senso patriarcale.

 

Uno degli spauracchi dei detrattori dell’ideologia gender è l’insegnamento nelle scuole. Quanto è importante invece che sin da piccoli si impari a distinguere, capire  e rispettare? “Di fronte all’emergenza della violenza sulle donne diffusa a vari livelli nella società o del bullismo, diventa una emergenza educare i bambini al rispetto delle differenze: di genere, di cultura e di religione. Di fatto anche quando diciamo ad un bambino che cade e si fa male “se sei maschio non piangere”, o se gli facciamo vedere certa pubblicità sessista, trasmettiamo una intera educazione di genere sessista, senza che nessuno se ne renda conto. E’ urgente quindi un intervento nelle scuole, ma anche nelle Chiese, nelle aziende, in ogni agenzia formativa. Superiamo il cortocircuito per cui l’educazione di genere significhi insegnare ai bambini ad essere gay. In realtà gay si nasce, e non ci si diventa. Quel che deve essere insegnato è il rispetto per ogni persona nella sua dignità in quanto persona creata ad immagine di Dio”.   

 

Articolo pubblicato su L’Adige del 1 febbraio 2017