Come se non ci fosse un domani….

 

 

La “curva a mazza da hockey”  Michael Mann l’ha iniziata a usare alla fine degli anni ‘90, per cercare di svegliare i dormienti, o i negazionisti, che continuano spudoratamente a usare i propri suv (magari diesel, euro 5, le cui emissioni sono in media due etti , abbondanti, di CO2 ogni km percorso) come se non ci fosse un domani o alternative di mobilità, a mangiare cibi per la cui produzione si immettono nell’atmosfera quantità indecenti di anidride carbonica (per produrre un kg di carne di manzo si immettono in atmosfera 40 kg di CO2), che d’estate fanno andare i loro condizionatori a manetta  (circa 340kg di CO2 finiscono nell’aria per rinfrescare 20mq per quattro mesi, sei ore al giorno) e d’inverno riscaldano le loro case come saune (parliamo di circa 2500kg di CO2 per scaldare, col gas metano, in un inverno un appartamento di 50mq, ma se ci accontentiamo di 20 gradi in casa. Ogni grado in più pesa circa 100kg di CO2 ). Un crescendo di anidride carbonica, alla faccia delle evidenze scientifiche del global warming, che sta rendendo inabitabile il pianeta, provocando migrazioni e disastri ambientali. Michael Mann, (statunitense, pluripremiato scienziato  del clima, fisico e climatologo, il primo ad aver pubblicato una precisa ricostruzione della temperatura media nei secoli passati) è stato a Trento lunedì 18 giugno   al Muse, anche per presentare il suo libro scritto a quattro mani con Tom Toles (giornalista del Washington Post) “La terra brucia” (Hoepli). Dialogheranno con lui Christian Casarotto, glaciologo del Muse e Roberto Barbiero, climatologo dell’Osservatorio Trentino sul clima.

Mann destò scalpore con la pubblicazione dei suoi dati e con l’impennata delle temperatura attorno al 1850 (prima era praticamente piatta) quando iniziò una industrializzazione seguita da un indiscriminato uso di combustibili fossili. Quella curva sul grafico è appunto la “mazza da hockey”, per la quale ha subito numerosi attacchi dai negazionisti.

Al climatologo abbiamo domandato se c’è evidenza dai dati che solo quando smetteremo di bruciare combustibili fossili saremo in grado di salvare il pianeta.

“Il tasso di riscaldamento senza precedenti del secolo scorso può essere spiegato solo dall’aumento delle concentrazioni di gas serra. La mia ricerca mostra che c’è ancora tempo per ridurre le nostre emissioni di carbonio in misura sufficiente per evitare i cambiamenti più pericolosi e potenzialmente irreversibili del clima”.

Quali aspetti della sua ricerca ritiene più rigorosi e importanti?

“Sto indagando su vari aspetti del cambiamento climatico. La ricerca che ritengo più importante è il mio lavoro paleoclimatico, e in particolare quello su  la curva “hockey”. Con i miei co-autori la pubblicammo due decenni fa (anche se ancora è poco nota, ndr): dimostra quanto il riscaldamento moderno sia senza precedenti. Tuttavia, svolgo anche ricerche su vari aspetti della scienza del clima, tra cui ricerche sulla variabilità del clima naturale, previsione del clima e, più recentemente, sugli impatti dei cambiamenti climatici su eventi meteorologici estremi”.

Quindi a suo avviso siamo ancora a tempo per tornare indietro con le temperature o abbiamo superato il “punto di non ritorno”?

“La nostra ricerca mostra che possiamo limitare il riscaldamento a meno di 2 gradi rispetto al preindustriale. Ma già solo  mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2 gradi richiederà un’azione concertata che vada ben oltre, ad esempio, agli impegni assunti dalle nazioni del mondo, tra cui l’Italia, nell’accordo di Parigi di diversi anni fa. Occorre fare molto di più”.

 

Negli Stati Uniti lei è stato molto criticato dai negazionisti del riscaldamento globale: le cose stanno cambiando oggi, sotto l’amministrazione Trump?

“Come spiego nel  mio libro “The Madhouse Effect” stiamo affrontiamo una sfida monumentale negli Stati Uniti proprio adesso, dove il nostro intero governo, il nostro presidente e il congresso,  sono controllati dai politici negazionisti del “global warming”. Ciò significa che i progressi possono e devono arrivare a livello locale e statale, con Stati come la California e il governatore Jerry Brown, un mio amico, che svolge un ruolo chiave nella direzione di una nuova consapevolezza del problema clima. Il prossimo novembre il popolo americano ha la possibilità di cambiare direzione rifiutando il Trumpismo ed eleggendo politici che agiranno sul clima. Una parte importante del mio messaggio in questi giorni in cui parlo con il pubblico americano è basato proprio sull’importanza del voto nelle prossime elezioni. È la nostra migliore speranza per superare l’ostacolo  Donald Trump”.

 

Cosa deve fare la comunità scientifica per far crescere la consapevolezza del problema clima?

“È fondamentale che la comunità scientifica faccia il possibile per comunicare al pubblico in termini inequivoci che il cambiamento climatico è reale, causato dall’uomo e una grande minaccia se non agiamo. Dobbiamo anche comunicare, chiaramente, che c’è ancora tempo per agire. E con la transizione dai combustibili fossili verso le energie rinnovabili, possiamo sia raggiungere la prosperità economica sia sostenere il nostro ambiente e il nostro pianeta”.

 

Una persona qualsiasi invece che può fare per contribuire a invertire la rotta del riscaldamento?

“Ci sono cose che possiamo fare nella nostra vita quotidiana per ridurre la nostra “carbon footprint” (impronta di carbonio): usando l’energia rinnovabile, risparmiando energia e risorse, pedalando invece di guidare. E in molti casi queste sono azioni “no regrets” (senza rimpianti): ci rendono più sani, ci fanno risparmiare denaro. Ma per raggiungere la riduzione del carbonio ed evitare il catastrofico riscaldamento planetario, abbiamo bisogno azione al più alto livello. Ciò significa fare pressione sui nostri politici, sia qui in Italia che negli Stati Uniti. E smettere di votare i politici che si rifiutano di farlo!”

 

RE-VELATION

Ri-velare. E’ il verbo più adatto per quel copricapo leggero sulla testa delle donne occidentali fino al secolo scorso. Oggi diventato simbolo di appartenenza sui capelli delle donne islamiche, arabe, indiane.  Il velo vela e svela. Ri-vela nel senso che demistifica l’universo di significati che l’uomo, nel suo maschi

lismo, carica sul quel tessuto più o meno leggero. Allo stesso tempo manifesta l’indole seducente del nascondere: quel che è prezioso va scoperto.

 

Sul velo Maria Grazia Muzzarelli, professore associato di “Storia medievale” presso l’Università di Bologna, ha scritto un saggio, A capo coperto. Storie di donne e di veli
(Il Mulino). Ne ha parlato l’ 8 marzo, Festa della donna, (ore 17.30) al Museo diocesano di Trento (Piazza Duomo, 18)  in un incontro dal titolo: “Il velo: un’eredità, una permanenza, un paradosso, un oggetto che fa discutere”. Al diocesano si tiene in questi giorni e fino al 30 aprile la mostra” RE-VELATION”, a cura di Clelia Belgrado e Domenica Primerano. Si tratta di una serie fotografica di Carla Iacono sul tema della manipolazione delle differenze culturali, a partire dalla situazione delle donne musulmane immigrate in Europa.

 

Alla Muzzarelli abbiamo domandato cosa sta “sotto il velo”, che oggi ci fa paura sulle teste delle donne immigrate.

“Anziché  considerarlo come oggetto di timore bisognerebbe guardarne la storia. Il velo  è un oggetto “in mezzo a noi, ma anche parte rilevante della cultura mediterranea.

Credo sia necessario disincrostare questo il simbolo, per far emergere bellezza e anche seduzione. Occorre eliminare i significati più severi e cercare di considerarlo come un oggetto per veicolare messaggi diversi,  non necessariamente per suscitare timore. Nella nostra cultura non c’è più l’uso di stare regolarmente a capo coperto tra le donne: ma è una trazione mediterranea e addirittura il mondo cristiano ha utilizzato il velo come pubblicità delle virtù delle donne. Basti guardare gli ordini monastici femminili. Una esperienza che è stata presente fino alla metà circa del novecento”.

 

Cosa a suo avviso ha “tolto il velo” alle donne occidentali?

“La moda: è una delle tesi contenute nel mio saggio.  Inizialmente ha permesso al velo di diventare un elemento ornamentale, seducente come la famosa “veletta” sugli occhi delle donne del XIX secolo. E’ uno dei paradossi più grandi: quel che doveva essere un elemento di sottomissione ai dettami della religione e della cultura maschilista è diventata occasione per cambiare lo sguardo sulle donne”.

 

Oggi sono tante le giovani donne, islamiche o comunque di cultura araba, che portano il velo a scuola come in ufficio, in mezzo a noi. Perché ci fanno paura?

 

“Se il velo è una scelta allora vuol dire che le scelte non sono mai fatte in un mondo iperuranico, sono legate alla realtà che ogni singola donna vive. Di per sé il velo non è un elemento di mancata emancipazione: può essere invece l’affermazione della propria identità. Se ad una ragazza giovane fa piacere portare il velo per sottolineare la propria appartenenza che problemi abbiamo noi di culture diverse ad accettarla?   Trovo inaccettabile invece che diventi un blocco ad una vita di relazione. Il velo non è imposto dal Corano: ci sono solo alcune sure che vi fanno riferimento e non sono prescrittive”.

 

Il messaggi erotici, sensuali, passano quasi esclusivamente dal corpo delle donne: è uno dei punti chiave per leggere la tradizione del velo?

 

“Recentemente sono stata in Tunisia per alcune conferenze: delle ragazze del luogo mi hanno avvicinato chiedendomi come valutavo il fatto che per  vendere un’automobile in occidente si usa l’immagine di una donna nuda. “Questo è vero abuso del corpo delle donne”, mi hanno detto. Ho dovuto dar loro ragione. La mercificazione del corpo femminile a fine pubblicitari è oggettivamente un elemento che immiserisce e annichilisce le donne. Non è solo responsabilità degli uomini, ma anche di quelle donne che si prestano a questo “gioco delle parti”. Posso solo dire che il velo è una forma di copertura che ha in sé dell’ambiguità.

Copre e scopre allo stesso tempo. Vorrebbe distogliere gli sguardi in realtà li attrae. Credo che sia uno degli aspetti più belli e sensuali della relazione erotica. Vedere e non vedere, la lucentezza, l’attrazione, la leggerezza al posto di una esplicita esposizione “senza veli”.

 

Concludendo lo chador va bene anche a scuola, anche in ufficio?

 

“A patto che sia un elemento di identità, di appartenenza. Ma non diventi la punta dell’iceberg della sottomissione femminile. Il velo può essere un elemento di grazia, una forma di fedeltà ad una tradizione assolutamente legittima in tutti gli ambienti. Con dei limiti certamente: devo poter capire chi ho davanti. Ci sono delle regole che la nostra civiltà occidentale impone: credo tutte legittime. Ma il velo non è un oggetto a cui attribuire necessariamente significati negativi. Anche perché è parte della nostra storia. Non solo il velo è “fra noi” in testa a donne di altre fedi o tradizioni,  ma è nelle pieghe della nostra storia recente. Le nostre nonne hanno continuato a coprirsi il capo. Mia nonna non usciva di casa senza un cappello, e lo teneva anche in casa di amiche. Questa non è una storia che risale a chissà quanti secoli or sono. E’ la nostra storia. Dalla nostra latitudine la moda ha fatto cadere l’uso di coprirsi il capo. Allo stesso tempo è aumentato lo spazio di consapevolezza delle donne: questo è il vero valore.

 

Genome editing:

E’ giusto intervenire sul genoma umano? Quali sono i rischi, non solo dal punto di vista medico e scientifico, ma etico e morale? E’ lecito modificare il genoma umano in modo che le generazioni future siano più resistenti? Ne ha discusso Lucia Galvagni, ricercatrice al Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento, in un suo recente intervento a Belgrado dal titolo: “Genome editing: biomedical and ethical perspectives”, organizzato dal Center for the Study of Bioethics (Belgrado), in collaborazione con l’Hastings Center (New York) e la NYU School of Medicine. Galvagni ha parlato di “Enhancement umano e tecnologie di genome-editing: nel dibattito c’è un posto e un ruolo anche per le religioni?”

Migliorare la nostra umanità dal punto di vista genetico – abbiamo domandato alla ricercatrice di Trento – non le sembra una cosa “buona e giusta” se guardiamo a quanto recentemente accaduto ad un bimbo al Bambin Gesù di Roma che grazie ad una modificazione genetica ha sconfitto la leucemia?
“Certamente è una cosa buona. Ma credo si debbano fare delle distinzioni: ci sono delle modificazioni genetiche su individui adulti o su bambini. La si fa da tempo e viene chiamata terapia genica somatica. Nel momento in cui sono state fatte le dovute sperimentazioni e verifiche, viene considerato un intervento valido dal punto di vista clinico e lecito dal punto di vista morale e legale. E’ invece molto in discussione oggi la possibilità di intervenire con terapia genica sulle cellule iniziali di un embrione, la cosiddetta terapia genica germinale”.
Quali sono i motivi di discussione su questo tipo di terapie: non sono comunque orientate al benessere di una persona che dovrà nascere? “Permangono forti dubbi rispetto ai rischi: se si interviene a modificare uno zigote cosa succederà nello sviluppo successivo? Si può essere sicuri di prevenire una malattia con un intervento genetico, ma non si può essere altrettanto certi di non indurre indirettamente un danno biologico. Sugli interventi diretti sul genoma umano abbiamo ancora molti punti di domanda: cosa potrebbe succedere sul medio e lungo periodo? Quali possono essere le conseguenze a livello metabolico? Non possiamo sapere infatti se la modificazione potrà dare degli effetti nello sviluppo dell’individuo. La convenzione di Oviedo del ‘97 esclude interventi genetici a livello germinale”.

Questo per quanto riguarda un livello medico e scientifico: eticamente invece quali sono i dubbi? “Ci sono posizioni diverse: per qualcuno il fatto stesso di poter migliorare le condizioni di vita del nascituro giustifica un intervento sul genoma, anche con dei margini di incertezza. In Europa in particolare però ci sono molte resistenze a livello morale e molti sono stati i pronunciamenti che invitano alla cautela. Ci sono troppe incertezze e per ora gli interventi riguardano soprattutto forme di terapia genetica. Il miglioramento invece non è previsto”.
Quale potrebbe essere il ruolo delle religioni in questa discussione? “Al Convegno di Belgrado sul “genome editing” ho presentato le ricerche che stiamo svolgendo in FBK a Trento, in particolare quel che è emerso dal recente simposio “Making the cut? Scientific possibilities and ethical, legal and social challenges of gene-editing” con vari esperti da tutta Europa. C’è stata discussione su un punto: è lecito, oltre all’intervento terapeutico, pensare di migliorare la condizione di adattamento delle generazioni umane future ad alcune condizioni ambientali avverse? A Belgrado una delegazione di esperti di Oxford su questo punto è stata chiara: è un dovere morale lavorare per migliorare le condizioni di adattamento dell’uomo alla vita e all’ambiente”.
Questa posizione lei la condivide? “Noi rispetto a questo scenario stiamo cercando di capire quali sono i limiti, i rischi, di un intervento genetico. L’incertezza non è mia: è la comunità medico scientifica che avanza dubbi. Come in tutte le scoperte scientifiche dobbiamo pensare agli effetti che non possiamo prevedere in questo momento. I danni potrebbero essere superiori al beneficio che oggi vediamo. A Belgrado altri ricercatori di New York, medici, hanno detto chiaramente che non intendono avviare un percorso di miglioramento del genoma umano fintanto che non ci saranno conoscenze più solide”.

Quindi si tratta solo di sperimentare, aspettare e controllare gli effetti, non ci sono remore di altro tipo? “ Si tratta di tempo a c’è anche bisogno di avviare delle sperimentazioni più mirate. Rispetto ad una determinata malattia prima dobbiamo stabilire se non esistono farmaci o altre tecniche per contrastarla. Solo allora possiamo decidere di intervenire a livello genetico. La questione a monte è abbastanza semplice: il genome editing serve anche per prevenire malattie, ma anche per modificare il genoma di piante e animali. Sono tecnologie molto promettenti dal punto di vista umano che sono di fatto già applicate in agricoltura e zootecnia. Sull’uomo crediamo sia meglio avere pazienza. Per ora è meglio concentrarci su quelle malattie dell’uomo che hanno una prevalente o esclusiva componente genetica, cosiddette monogeniche, che però sono molto poche”.

La strada comunque è aperta: un uomo “migliore” è possibile? E’ superato il dualismo naturale-artificiale? “Su questo il dibattito etico e filosofico è aperto. Abbiamo di fronte una specie di “superuomo” di nietzschiana memoria? Capace di avere delle performance fisiche e cognitive superiori? Su questo punto le religioni hanno atteggiamenti diversi e quello che una tempo era un caposaldo, la distinzione tra naturale e artificiale, oggi è meno semplice da definire. Abbiamo forzato il limite naturale su tanti versanti: quel che si fa in terapia intensiva è artificio. Un arresto cardiaco è la morte naturale di un individuo: noi oggi possiamo intervenire “artificialmente” per salvare una vita. Un tempo si parlava di “fecondazione artificiale”, oggi parliamo di “fecondazione assistita”, non a caso. Naturale a volte diventa artificiale oggi, culturalmente è stato ampiamente superato il dualismo”.

Le religioni stanno a guardare? “ Sulla trasmissione della vita ci sono posizioni diverse: le tecnologie della fecondazione assistita sono viste con cautela nelle religioni d’occidente, monoteiste, del libro. Prevale la domanda: una coppia deve avere a tutti costi un figlio? Mentre tra le religioni orientali prevale il criterio della trasmissione della vita, mettendo in secondo piano le tecniche di fecondazione. Le componenti culturali delle diverse religioni sono determinanti. le religioni poi, in generale, aiutano a riflettere sulla finalità delle tecniche biomediche: perché facciamo qualcosa? Con che obiettivi?”.

Infine c’è un problema di giustizia sociale: chi può accedere a questo tipo di tecnologie per il miglioramento della condizione umana? Quali sono i costi? “La ragione per cui le tecnologie di editing del genoma sono diventate oggetto di forte discussione è proprio questa: negli ultimi tempi, con la CRISPR technology, un sistema molto efficace per intervenire sul genoma, i costi si sono molto abbassati. Fino a quando per l’editing genetico i costi erano alti non si poneva il problema. Ora si tratta di tecniche facilmente accessibili. Proprio per questo si discute: abbiamo delle tecniche semplici, efficaci e convenienti. Perché non usarle? In realtà si tratta comunque di pratiche possibili solo in laboratori specializzati: ne esistono nei Paesi cosiddetti più sviluppati, ma non dovunque nel mondo. Ecco che si pone ancora la questione della giustizia: se parliamo di genome editing non possiamo estenderlo ad un livello globale, ma per ora solo ad alcune zone del mondo”.

 

Articolo pubblicato su L’Adige del 20 febbraio 2018

In principio erano i bit.

Da “iConfess”,  per confessarsi, con ironia, tramite il proprio smartphone, fino al metafisico Planescape Torment, videogioco per meditare sulle conseguenze del credere, il linguaggio virtuale e digitale sta colonizzando la trascendenza. Ne parleranno due giovani ricercatori Vincenzo Idone Cassone e Mattia Thibault, dell’Università di Torino, per una conferenza  dal titolo “In principio erano i bit: genesi e fede dei mondi videoludici” che si è tenuto martedì 6 febbraio alla Fondazione Bruno Kessler, promosso dal Centro per le scienze religiose. Ai due ricercatori, esperti di semiotica e che da alcuni anni si occupano dei mondi videoludici digitali abbiamo chiesto  cosa intendono  con relazione tra trascendenza e videogioco?

 

I giocatori in un videogioco agiscono tramite la proiezione di un avatar – spiga Thibault – un personaggio digitale che incarna e traduce le azioni su un piano digitale,  in un ambiente virtuale sul quale hanno un controllo limitato. La struttura, le leggi e i contenuti di quel mondo non dipendono in alcuna maniera dai giocatori, ma sono decisi dagli sviluppatori del gioco e messi in campo dal programma ludico stesso. In questo senso la relazione tra il giocatore/avatar e le istanze che hanno dato vita agli spazi in cui si muove è configurabile come una forma di trascendenza.

 

Ma che tipo di religiosità emerge, con quali connessioni con la “vita quotidiana” del “videogamer”?

In molti giochi le relazioni di trascendenza non sono in alcun modo problematizzate – risponde Idone – il giocatore non è invitato ad interrogarsi sulla realtà del mondo virtuale con cui interagisce e si muove al suo interno in modo “ingenuo”. Altri giochi, però puntano proprio su questa relazione per offrire un’esperienza significativa. I giocatori, allora, saranno costretti a porsi degli interrogativi: possono davvero fidarsi di quello che il gioco dice e suggerisce? Esiste forse un “qualcosa” al di là di ciò che si manifesta nella simulazione? Si tratta di una questione di fede e quindi, in un certo modo, collegata con la religio, con il sentimento religioso.

 

Esistono dei videogiochi pensati per aumentare la “fede” dell’utilizzatore per un particolare “dio”? Video giochi cristiani, islamici, induisti?

Esistono certamente dei giochi confessionali, ma sono una minoranza e hanno tutto sommato poco successo.  Qualche tempo fa si è molto parlato di mod, ovvero giochi modificati, usati dallo Stato Islamico per fare proseliti, ma non si trattava di convogliare messaggi religiosi quanto guerrafondai. Esistono poi molte app semi-ludiche, che imitano le caratteristiche dei giochi, che possono essere usate come supporti alla preghiera, per dire il rosario ad esempio; oppure che trattano la religione con tema ironico – come la app iConfess che permette di “confessarsi” con il proprio telefono.

 

Nella conferenza parlerete di relazione tra creazione/natura e videogioco: aumenta il senso di onnipotenza di chi “gioca a fare la parte di Dio”?

Non parleremmo di onnipotenza – precisa  Ivone – anche nei god games, chiamati così perché il giocatore ha il controllo su un vastissimo numero di personaggi e cose, quasi fosse una divinità, i giocatori devono sempre sottostare a delle regole che limitano il potere e la portata delle loro azioni. I videogiochi che lasciano più libertà creativa, poi, fanno appello più a un sentimento demiurgico che ad una sete di potere: in altre parole, il giocatore si sente realizzato nel creare,  talvolta nel distruggere, le proprie creazioni, piuttosto che nell’esercitare controllo assoluto su di esse.

 

Quali aspetti delle nuove tecnologie sono a vostro avviso utili per sviluppare il senso critico anche in chi ha una fede religiosa?

Le cosiddette nuove tecnologie sono un ambito molto vasto – secondo  Thibault –  ma restando sul videogioco vi sono meccaniche che possono offrire molti spunti per sviluppare il proprio spirito critico, indipendentemente dal fatto di essere religiosi, atei o agnostici. È proprio l’incontro tra la trascendenza delle istanze istitutrici del mondo virtuale e la fede che il giocatore deve avere nei loro confronti che può dare vita a strategie narrative in grado di portare i giocatori a riflettere attentamente riguardo a cosa credere e a chi concedere la propria fiducia.

 

5) Potete  farci alcuni esempi di videogiochi particolarmente interessanti dal vostro punto di vista?

Ve ne sono diversi: The Talos Principle, ad esempio propone proprio una riflessione su questi temi in un’ambientazione fortemente ispirata alle religioni abramitiche. Altri, come the Stanly Parable, pur non citando mai direttamente la religione, pongono le questioni della fede, della fiducia, della creazione e della trascendenza in modo fortissimo – e anche molto divertente. La serie Nier, attraverso il confronto con figure opposte,  ma simili agli uomini, automi e androidi, propone una riflessione sulla fede e il rapporto con l’autocoscienza. Un gioco meno recente, come Planescape Torment, è interamente fondato sulle conseguenze del “credere” e come le forme di credenza possano cambiare la natura degli uomini e della realtà.

 

Intervista Pubblicata sul quotidiano L’Adige del 6 febbraio 2018.