L’amore è intreccio di biografie, di storia, di vita, di emozioni reali, non di connessioni di rete o di fantasie. Stanno cambiando le nostre emozioni e perdiamo progressivamente la capacità di leggere e interpretare quelle degli altri mentre la rete aumenta il narcisismo e uccide le relazioni reali. Zygmunt Bauman nel suo intervento al Festival della filosofia svoltosi la scorsa settimana fra Modena, Carpi e Sassuolo, ha descritto una situazione inquietante, dove l’amore, quale forma di relazione tra esseri umani, assume caratteristiche nuove, conformandosi alle regole della rete e delle tecnologie oltre a rispondere ad “esigenze di mercato” e di profitto per pochi. Il titolo della relazione di Bauman di sabato 14 settembre a Carpi, in due affollatissime piazze (in una in diretta in inglese, nell’altra con maxischermo e traduzione in italiano), era “Legami fragili” e il sociologo polacco lo ha affrontato in duetto con Aleksandra Kania, professoressa di Sociologia presso l’Università di Varsavia. “Passiamo in media metà del nostro tempo libero interagendo con degli schermi – ha esordito Bauman – e ormai esistono due mondi paralleli: quello “on line” e quello “off-line”. Questi due mondi a volte vengono in contatto ma sta prevalendo quello “on-line” per la gestione delle nostre relazioni con gli altri. Non c’è bisogno infatti di molto tempo e impegno per entrare in contatto “on-line” con chiunque e a qualsiasi distanza. Mentre nel mondo “off-line” le relazioni richiedono impegno, a volte fatica, scelte e decisioni, in quello “on-line” ci sentiamo più liberi, vigono delle regole di “disimpegno” per cui è possibile staccare o riprendere una relazione con qualcuno senza troppi problemi. Tramite uno schermo e una tastiera siamo in grado di avere qualsiasi contatto e possiamo interromperlo in qualsiasi momento. “Nel mondo off-line invece la relazione significa impegno – ha detto Bauman – condizione necessaria per creare un rapporto con qualcuno è la continuità, trovare il tempo di frequentare l’altro, di starci accanto. Questo tipo di impegno non lo vogliamo più, cerchiamo di evitare la ripetitività, la noia: ci sentiamo invece liberi nelle relazioni in rete. Ma le esperienze con la tastiera hanno ridotto la nostra capacità di percepire le emozioni degli altri”. La rivoluzione dei social network ha prodotto questa nuova realtà nelle relazioni e nel vivere l’amore: sono più di un miliardo le persone iscritte a Facebook. “Il social network ci dà la sensazione di essere un gruppo, di stare assieme agli altri – ha spiegato il sociologo – ma non conosciamo i rischi della appartenza a questi gruppi e ci dimentichiamo che sono solo virtuali. Tutto diventa molto più semplice di fronte ad uno schermo e si sta verificando in questi tempi la più massiccia immigrazione: quella dal mondo off-line verso l’on-line, dove tutto appare più semplice e meno impegnativo”. Citando Jonathan Franzen, Bauman ha detto che “il fine ultimo della tecnologia consiste nel sostituire un mondo naturale indifferente ai nostri desideri fatto di sofferenze, uragani o cuori infranti, con uno spazio virtuale dove i nostri desideri trovano piena risposta. Il mondo on-line diventa un prolungamento del Sé. E’ una questione di comodità: un confort senza disagi. Quel che sembrava solo un sogno diventa realtà: vogliamo un mondo sempre presente, disponibile quando accendiamo il nostro schermo e plasmabile. Desiderio realizzato e soddisfazione immediata sono il risultato”. Ma che conseguenza ha tutto ciò per il nostro modo di vivere l’amore? “Tutti vorremmo continuare a sentirci pieni di passioni – ha proseguito Bauman – amando ciò che deve essere amato secondo i dettami della moda e del marketing. Siccome i nostri mercati rispondono ai desideri la tecnologia si adatta a produrre oggetti che corrispondono ai nostri ideali. Si genera così una relazione erotica: l’oggetto amato non chiede nulla e offre tutto, ci fa sentire onnipotenti e gli altri diventano solo oggetti di questo tipo di relazione. L’ oggetto tecnologico diventa esso stesso erotico. Passiamo ore di fronte a degli schermi senza parlare: non riusciamo più a capire come gli esseri umani possano essere più importanti di uno strumento elettronico! Il mondo off -line viene visitato sempre meno da chi si è addestrato nell’on-line. La disponibilità e il sacrificio di sé presuppongono il procedere lungo un sentiero non mappato che non vogliamo più percorrere: non accettiamo il rischio che l’Altro non risponda al nostro desiderio”. Ecco che la relazione amorosa cambia profondamente al tempo di Facebook e il narcisismo che si cela nel nostro profilo, ove presentiamo noi stessi al mondo, ha molto più spazio di espansione che non nell’amore reale. “Vogliamo pensare ad un opera d’arte quando trattiamo d’amore – ha spiegato il sociologo – una realtà profondamente umana e straordinaria assieme. Mi riferisco all’amore più profondo: occorre allontanarci dalla vita senza difficoltà proposta dal marketing dove non ci sono più decisioni e non siamo pronti ad incontrare l’amore vero, reale. Ci occorre una nuova formazione, disabituati come siamo al mondo off-line. Quando due persone si incontrano nella realtà sono prima di tutto le loro biografie ad intrecciarsi e sono necessari dei compromessi: non tutte le abitudini possono infatti essere conservate. Alcune vanno abbandonate, altre mediate ed è indispensabile rinunciare ad alcuni desideri. Non possiamo fare come nel mondo on-line dove è possibile gettare via il disubbidiente oggetto del nostro desiderio e sostituirlo con un altro senza difficoltà. Se nell’on-line i disaccordi sono dimostrazioni di incompatibilità che sfociano nella chiusura della connessione, nel mondo reale occorre versare qualche goccia di sangue per continuare l’intreccio delle biografie. L’amore reale è il vero antidoto al narcisismo”. Và riscoperto dunque secondo Bauman l’impegno reale nelle relazioni mettendo fine alla loro “versione informatica” nella quale si può essere sempre in forma e in ogni luogo come divinità onnipotenti. (Articolo apparso su L’Adige del 30 settembre 2013).
Siria: storie di resistenza e di speranza.
Dare spazio alla speranza, con un occhio a quelle piccole, grandi opere che proprio in Siria Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita scomparso in Siria durante un tentativo di mediazione e di cui ancora a tutt’oggi non si conoscono le sorti, aveva messo in atto per la convivenza tra culture e religioni e la solidarietà verso i più deboli. E’ l’intenzione dell’incontro dal titolo “Siria: storie di resistenza (e di speranza)” che si terrà questo pomeriggio (giovedì 29 agosto) alle ore 17.30 presso il Centro Bernardo Clesio (Via Barbacovi 4, Trento), proposto da Unimondo, Religion Today Filmfestival, e Officina Medio Oriente. Partecipa l’associazione “Insieme per la Siria libera”. A partire dal libro di Shady Hamadi “La felicità araba” in cui il giovane giornalista italo-siriano racconta la storia della sua famiglia e dell’opposizione siriana agli Assad e dal documentario di Yasmin Fedda “A Tale of Two Syrias” l’incontro vuole fare il punto sulla situazione in Siria. Il documentario, proposto da Religion Today, diretto dalla giovane regista Yasmine Fedda, di origine siriana, è stato girato nel 2010 – quando la possibilità del cambiamento in Siria sembrava ancora lontana – e completato nel 2012, dopo i quasi due anni di emergenza umanitaria seguenti lo scoppio della rivoluzione e la dura repressione ad opera del regime. Al grande pubblico occidentale il paese era noto per il suo straordinario patrimonio storico-artistico e per la sua lunga tradizione di convivenza interreligiosa. Oggi è familiare soprattutto per le scene di morte e distruzione che si rincorrono sui telegiornali di tutto il mondo. Fin dal 2010, Yasmin Fedda ha deciso di raccontare un’altra Siria, mettendo a fuoco le piccole grandi storie di due persone “comuni” alla vigilia della rivoluzione, nel contesto di un regime ogni giorno più soffocante e opprimente. Nel tempo il progetto si è evoluto seguendo i convulsi sviluppi della cronaca. Il risultato è un’opportunità di ascoltare voci troppo spesso perdute – quelle delle persone pacifiche che subiscono le conseguenze della violenza e delle restrizioni liberticide. Si parla anche del monastero Deir Mar Musa al-Habashi, fatto rinascere da padre Dall’Oglio, che poi è stato allontanato dal monastero e dalla Siria quando la crisi è scoppiata. All’incontro seguente alla proiezione saranno presenti Shady Hamadi, Giacomo Zandonini, giornalista e Lia Giovanazzi Beltrami, Assessore alla solidarietà Internazionale che in passato ha sostenuto il progetto di Deir Mar Musa e l’opera di padre Dall’Oglio.
Decrescita: unica possibilità per evitare il collasso del sistema.
Dio è morto e con esso il sistema economico ormai espressione della cultura che quel Dio, strumento e metafora di potere e sviluppo infinito, rappresentava. Unica soluzione: la decrescita e mettersi nella prospettiva dell’autoproduzione, guardando al medioevo per cercare di capire come ricominciare a cooperare e vivere felici. Massimo Fini, giornalista, drammaturgo, scrittore, è uno dei teorici della “decrescita” ed ha fondato nel 2005 “Movimento zero” proprio per diffondere a livello politico la necessità di porre fine all’illusione di una crescita infinita, di uno sviluppo senza limiti.
Che quel Dio è morto, Fini lo dice con il filosofo Friedrich Nietzche che all’inizio del novencento ha indicato profeticamente la fine di una civiltà, quella occidentale, nata sulla idea di progresso e sfruttamento delle risorse. Era all’AlterFestival, (Urban Center di Rovereto) lo scorso sabato 25 maggio, per dare il via alla due giorni di dibattito su un’economia “diversa”. Abbiamo chiesto a Fini di spiegarci come immagina la decrescita economica. “Il modello di sviluppo occidentale nato con la rivoluzione industriale, ormai ha coinvolto anche l’oriente. Si basa sull’impossibile: prevede un modello di crescita esponenziale. Ne esistono nella matematica. Non in natura. Dobbiamo essere consapevoli che ogni cosa umana ha un limite: lo stiamo raggiungendo in questi anni. Siamo come una potentissima auto, partita due secoli e mezzo fa. Ha tenuto sempre una altissima velocita: adesso però davanti ha un muro. E lo schianto è inevitabile. Eppure il pilota sta dando ancora il massimo del gas. Fuori metafora: non possiamo più crescere. E’ una dato di realtà e finiremo con un collasso estremamente drammatico se non facciamo qualcosa in fretta. Come nel caso dell’Impero Romano: appena finito di conquistare il modo è imploso. Ma l’Impero era una piccola parte del mondo: oggi nella crisi siamo coinvolti tutti. Il crollo questa volta sarà planetario”.
Proviamo a prospettare qualche “speranza”: che si può fare per evitare la catastrofe? “Se l’uomo fosse un animale intelligente dovrebbe avere il coraggio di fare qualche passo indietro. Deve tornare, in modo limitato e ragionato, a forme di autoconsumo. Bisogna arrivare ad un recupero della terra: è in fondo quella che ci nutre. Il cibo: l’unica cosa veramente essenziale. Poi è necessario un ridimesionamento drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale, la rete informatica, che ci sta inghiottendo tutti”.
In Trentino la piccola produzione familiare, il sistema di cooperazione, sono un elemento connaturale alla gente e al sistema economico. Come il “locale” deve interagire con il “globale”? Il “locale” ha grosse difficoltà a resistere se attorno ha un sistema di vita non conforme a se. Sono soluzioni esistenziali, particolari, che possono valere solo per alcune persone. Rischiano di fallire: come tutte le comunità “ideali”. Il problema è proprio la globalizzazione che ha esasperato tutto: vuol dire competizione spietata tra Stati che passa sulla pelle delle popolazioni prima del terzo modo e ora anche del “primo” mondo. Ma non siamo sempre stati organizzati così”.
Ci sono degli esempi nella storia che possono venirci utili come modello? “Nel medioevo si faceva perno sulla cooperazione e meno sulla competizione. Guardiamo gli statuti degli artigiani di allora: era vietato persino distogliere il cliente dal negozio del vicino. No alla concorrenza! Impedite per legge, da parte della Chiesa, sia l’usura che l’interesse sul denaro. Con una motivazione interessante.
Il tempo è di Dio, quindi di tutti, e non può essere oggetto di mercato. Per questo non si poteva speculare sul tempo. Le terre: erano distribuite non nel senso della maggiore efficienza, ma con un criterio di giustizia. Ogni nucleo familiare doveva avere il suo spazio vitale e non esistevano quei fenomeni che oggi di inquietano tanto. Non c’era la disoccupazione: ciascuno viveva sul suo e non restava senza lavoro. Il “servo della gleba”: non poteva lasciare il terreno del feudatario, ma non poteva nemmeno essere abbandonato o cacciato”.
Non avrà intenzione di proporci un ritorno al medioevo? “No. E’ lecito certamente porci dei dubbi sulla strada che abbiamo intrapreso: si è puntato tutto sulla economia emarginando altre istanze ed esigenze dell’uomo. Dal passato possiamo prendere delle suggestioni. Non tornare al medioevo, ma piuttosto dobbiamo ripercorrere la storia economica e non fossilizzarci su un “unico” modello possibile. Quello attuale che si può riassumere in: lavora, consuma, crepa!”.Possiamo fare a meno della tecnica e dei vari strumenti tecnologici che oggi caratterizzano la vita quotidiana? “Paolo Rossi, filosofo della scienza, mi spiegò una volta che la tecnica è un moltiplicatore di problemi: come ne risolve uno ne apre mille di nuovi. Allontana da noi stessi e dai nostri istinti. Nel crollo delle torri gemelle, 11 settembre 2001, si salvò un cieco: il suo cane lo portò fuori pericolo perché non sentì e non capì evidentemente gli inviti degli altoparlanti a stare calmi e ad attendere l’arrivo dei soccorsi. La natura e l’istinto ci salvano. Non la tecnica. Siamo in una società dove il tasso di suicidi è cresciuto in maniera tragica negli ultimi anni. E’ un sintomo chiaro dell’infelicità sostanziale della gente”.
La spiritualità, la religione, può avere un ruolo per “salvarci” dal collasso? “Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. E non è possibile resuscitarlo. La religione oggi è quasi puramente formale. Il precedente Papa ha sintetizzato così la situazione: Dio ha abbandonato gli uomini. Sono un onesto pagano: credo però che la Chiesa debba curarsi delle anime e da parecchio tempo a questa parte si occupa di tutt’altro”.
(Articolo pubblicato su L’Adige del 25 maggio 2013)
L’ironia e la ricerca della verità.
L’ironia, la comicità, contribuiscono a svelare la verità, a smascherare ciò che non va. Ma chi passa dall’ironia alla politica attiva fa un salto anomalo. Giacomo Poretti, del famoso trio Aldo Giovanni e Giacomo, concepisce il suo lavoro di comico come un contributo a modificare atteggiamenti e situazioni che non vanno. Con un occhio alla dimensione spirituale nel ridere, nel gioire e nel saper ironizzare.
“Riso e Pianto” è il tema, il contrasto della vita, che sarà il centro dell’ultimo incontro per la “Cattedra del Confronto” organizzata dall’Ufficio diocesano cultura e università per martedì 23 aprile (ore 20.45, Sala della cooperazione, Via Segantini). Una delle due voci, tradizionalmente a confrontarsi sono personaggi con vedute diverse sul medesimo tema, sarà quella di Poretti, accanto ad Eraldo Affinati, scrittore noto per il suo impegno come insegnante nella “Città dei ragazzi” a Roma. Il contrasto questa volta è di quelli che mettono di fronte a due emozioni forti, gioia e dolore. Che ridere sia una “cosa seria” lo testimoniano gli impegni di filosofi ed intellettuali. Da “Il motto di spirito” di Sigmun Freud a “Il riso” di Henri Bergson sono tanti i tentativi di comprendere i meccanismi del ridere. Sul pianto invece occorre fare un lavoro di comprensione profonda, ma si ha a che fare con il dolore sul quale la parola ultima e lenitiva a volte è solo la compassione.
Iniziamo dal tema della serata: Come intende affrontare la parte che le riguarda? “Cercherò di farlo a partire dal mio lavoro – risponde Poretti – Come la comicità ha incontrato la mia vita. Al punto da farne un lavoro. Cercherò di spiegare, annoiando il meno possibile, quale significato ha per me la comicità e cosa si intenda quando far ridere diventa un lavoro. Sul riso e sulla comicità in generale ci sono varie curiosità. Forse posso aiutare, in questo momento particolare del nostro Paese, in un periodo piuttosto difficile, a rispondere a delle domande su cosa ci aiuta, con il ridere, ad affrontare tutto ciò. In maniera meno generica possibile”. Dunque la comicità può avere un ruolo per capire meglio il nostro tempo, la vita di ognuno? “Sono convinto che, più della comicità, l’ironia sia un atteggiamento mentale che se adottato e accolto ci aiuta a svelare i nostri difetti e pertanto, tendenzialmente, ci facilita la ricerca della verità delle cose. Tutte le volte che si fa del’ironia si cerca di smascherare un difetto, un atteggiamento rigido di persone o situazioni. Se accolta, l’ironia apre la possibilità di modificare ciò che non funziona. Si può procedere a cercare un senso diverso. Per questo c’è sicuramente un lato spirituale del fa ridere”.
Cosa pensa dei comici che diventano politici? “Domanda complicata…. certamente si riferisce a Grillo e alla situazione nuova venutasi a creare in Italia: abbastanza unica, anomala. Bisognerebbe aspettare a giudicare, credo. Personalmente ho apprezzato moltissimo Grillo fino a quando arrivò ad istituire i famosi “Vaffa day”. Si trattò di una operazione di satira molto marcata e abbastanza decisa che però restava nei confini dell’atteggiamento ironico di cui parlavo prima. Uno smascheramento di un difetto o di una serie di cose che non funzionavano. Diventando poi politica la scelta di Grillo non mi interessa più. Non la condivido. Anche se le cose in questo caso sono nettamente separate. Un conto è l’ironia altro è l’attività politica fatta da un comico, o ex comico. In questo caso è la persona, Grillo a decidere come porsi”.
La comicità agisce in tutte le sue variegate forme o c’è un ridere inutile, superficiale, disimpegnato? “Stanlio e Ollio, i film di Totò, Buster Keaton, Aldo Fabrizi erano inutili? Non credo che valga solo la satira politica in termini di comicità. Personalmente la relego ad in genere abbastanza inferiore. La comicità ha una sua funzione importante. Altrimenti restringiamo troppo il campo”. Ogni comicità dunque è capace a suo modo di leggere la realtà e di rimandarla a chi ride in modo da poterci riflettere. Che dire del rapporto riso – pianto? “Le due cose certamente hanno una certa vicinanza. Il modo di dire “si ride per non piangere” credo sia molto significativo. La dice lunga su quanto siano vicine queste due apparenti etremità”. Lei nella sua vita si occupa anche di volontariato in ambienti cristiani, a Milano: che ruolo ha la dimensione spirituale, religiosa, nella sua vita? “Se si riferisce alla mia collaborazione con il Centro culturale San Fedele a Milano e altre situazioni sono luoghi di aggregazione cattolica. Sono un credente. Mi sembra una cosa normale. Mi ci ritrovo e cerco di praticare il mio apostolato culturale laddove è possibile”.
Per concludere: “gioire con chi gioisce e piangere con chi piange”, diceva San Paolo: che senso ha per lei questa proposta? “ E’ una idea vastissima, grande. Ma mi viene da dire delle cose normalissime. Dobbiamo cercare di essere in allegria con le persone con cui condividi delle cose della vita. Si ride con chi ci è più simile e vicino. La seconda parte della frase ci rende attenti alle persone che soffrono. Provare compassione, vuol dire ritrovare in se stessi il medesimo sentimento dell’altro che soffre. Per tentare di comprendere la sofferenza altrui occorre saperla accogliere dall’altro che realmente soffre”.
Capitalismo che diventa religione.
Il debito non deve essere colmato: occorre riprodurlo per mantenere in vita un sistema economico come il capitalismo che ha molti lati in comune con l’ascesi. La soluzione alla crisi economica attuale non verrà pertanto dagli economisti, ma dalla filosofia, dalla religione, dal cambiamento culturale. Come l’idea del capitalismo è sorta in ambito religioso così anche sarà possibile trovare nuove strade dalla contaminazione tra
le religioni e le loro idee sul denaro, giustizia, ricchezza, povertà. Elettra Stimilli , ricercatrice presso l’Università di Salerno, ha avviato questo percorso di indagine soprattutto analizzando l’idea di debito e di ascesi propria del capitalismo. Sarà a Trento il prossimo martedì 16 aprile (ore 15) presso l’Aula Magna del Liceo Leonardo Da Vinci nel ciclo di incontri su “Filosofia del Denaro” organizzata da Michele Dossi del dipartimento di filosofia in collaborazione con il Centro Formazione Insegnanti di Rovereto.
Le abbiamo chiesto di chiarirci innanzitutto il rapporto
tra ascesi e capitalismo: “Si tratta della questione del debito, che oggi è di grande attualità e che è sottesa alla crisi economica. Sembrerebbe oggi che il rapporto tra ascesi e capitalismo sia molto chiaro: occorre rinunciare a consumare per risanare il debito. In realtà l’economia del consumo, quella in cui c’era lo sperpero, l’acquisto a tutti i costi, atteggiamento origine della situazione in cui ci troviamo, non è così contrastante con una concezione come quella della rinuncia. Così come nell’economia del consumo l’ob
iettivo non è raggiungere determinati beni o soddisfare bisogni, bensì continuare a fomentare desideri. Il debito non deve essere colmato: occorre riprodurlo per mantenere in vita un sistema economico come il capitalismo. Ecco la rinuncia, l’ascesi.
Guardando al Vangelo e a certe sue istanze sulla povertà, sul rifiuto della ricchezza come strada verso “il Regno di Dio” come può essere avvenuta una tale distorsione da portare, in ambito protestante, alla nascita del capitalismo? “A mio avviso non c’è distorsione: il rapporto tra cristianesimo ed economia è molto antico. Sin dalle origini quella cristiana è la prima comunità a pensarsi in termini economici. Traducendo il linguaggio giuridico ebraico in quello amministrativo: l’Ecclesia andava ammistrata e ognuno doveva essere “economo” di se stesso. La concezione ebraica del peccato viene tradotta in “debito”: Cristo è venuto a colmare il debito, ma solo attraverso la grazia. Ciascuno invece deve amministrarlo e gestire una situazione che non può essere annullata. Il peccato originale resta. E’ fondamentale questo meccanismo per capire cosa succeda a livello economico. La questione della povertà è molto complicata: in realtà studi di storia medievale evidenziano che proprio nel francescanesimo si origina un modello economico dove appare il concetto di mercato. Sono i francescani i primi a gestire se stessi in quanto “debitori” e persone che possono “fare a meno di”, ma non in maniera strumentale per una vita ultraterrena, ma perché su questa terra si può vivere in quanto esseri manchevoli, in debito”.
Alternative al sistema capitalistico? “Una critica al sistema non può essere fatto in maniera semplicistica. Non è sufficiente invocare la decrescita per superare la crisi. Molti degli elementi che vengono presi in considerazione da chi vorrebbe la decresita sono interni al sistema. Solo entrando dentro al capitalismo si può trovare una via d’uscita. Non è necessario invocare la povertà”.
Cosa dire dell’istanza evangelica di giustizia, di equità, guardando alla nascita del capitalismo, basato sulla legge del più forte, del profitto, in seno alla cultura cristiana? “Non vendo una evoluzione storica tra cristianesimo e capitalismo. Dobbiamo invece osservare come nella religione cristiana si è avviato un meccanismo di potere. Questo non significa solo “male”: è un sistema che ha funzionato. Questi elementi sono presenti ancora nell’attuale sistema economico”.
Il confronto, la contaminazione tra religioni, islam, cristianesimo, buddhismo, può essere utile sui temi economici? “Ne sono certa: ogni contaminazione è positiva. L’islamismo ha assunto tanta importanza attualmente perché il capitalismo è diventata la religione dell’occidente. Se il capitalismo viene indentificato come tale, una religione, le altre forme di fede possono solo trarne giovamento e avanzare proposte e vivere soluzioni diverse”.
Articolo pubblicato su L’Adige del 14 aprile 2013