Filosofia come libertà e liberazione. Per UTETD.

Università della Terza Età e del Tempo Disponibile

La Libertà

Un percorso di “liberazione” attraverso la filosofia

Il Tema del Corso

Il concetto di libertà è centrale nella filosofia occidentale, ma il suo significato non è affatto scontato.

Questo percorso esplora la libertà non come uno stato dato, ma come un processo: un faticoso cammino di “liberazione”.

Ogni filosofo ci indicherà una “prigione” da cui fuggire e una “via” da percorrere.

Prima Lezione

Le Fondamenta della Libertà:
Dall’Anima alla Natura, da Dio all’Infinito

1. Socrate: La Prigione dell’Ignoranza

Il nostro viaggio inizia con una ridefinizione dell’essere umano. Per Socrate, “noi siamo la nostra anima”. L’identità risiede nella *psyché*, intesa come sede della vita intellettuale e morale.

La vera prigione, quindi, non è il corpo, ma l’ignoranza: l’agire senza conoscere il vero Bene.

“Nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza.”

Socrate: La Liberazione attraverso la Conoscenza

Il percorso di liberazione è il celebre motto: “Conosci te stesso” (Gnōthi seauton).

La libertà si ottiene attraverso la “cura dell’anima”: un dialogo incessante (la maieutica) per liberare la nostra anima dalle false opinioni.

Concetto Chiave: Intellettualismo Etico

La vera libertà non consiste nel fare ciò che ci pare (schiavitù delle passioni), ma nell’agire secondo ragione, conoscendo il Bene.

2. Aristotele: La Libertà nell’Azione Concreta

Con Aristotele, la ricerca della libertà scende dal cielo alla terra. L’etica non è una scienza teoretica, ma una “scienza pratica”.

Il suo fine non è la conoscenza astratta del Bene (come in Platone), ma la felicità (*Eudaimonia*) raggiungibile in questa vita.

Importante: per Aristotele, l’uomo è libero. In campo etico e morale, le sue azioni non sono “necessarie” o preordinate.

Aristotele: La Prigione degli Estremi

La prigione da cui liberarci è il caos degli impulsi, il dominio delle passioni che ci spingono verso i due estremi: l’eccesso e il difetto.

Siamo schiavi quando siamo vili (difetto di coraggio) o quando siamo temerari (eccesso di coraggio).

Aristotele: La Liberazione come “Giusto Mezzo”

La libertà è autodeterminazione. Si realizza attraverso l’esercizio della virtù.

La virtù è la capacità, forgiata con l’abitudine, di scegliere il “giusto mezzo” tra i due estremi.

Strumento: La Saggezza (Phronesis)

Il giusto mezzo non è una media matematica, ma una scelta che si adatta alla situazione. Per trovarlo serve la saggezza pratica, la virtù dianoetica che guida le virtù etiche.

3. Epicuro: La Prigione della Paura

Con l’ellenismo, la libertà si ritira dalla vita pubblica e diventa una conquista interiore. La prigione è il turbamento (*tarassia*) dell’anima.

Siamo schiavi di due paure fondamentali:

  • La paura degli dèi (che ci puniscano).
  • La paura della morte (che sia dolorosa o una fine terribile).

Epicuro: La Liberazione come “Atarassia”

Il percorso di liberazione è il “Quadrifarmaco”, una “medicina” per l’anima.

“Il male, la morte, non è nulla per noi: quando ci siamo noi, non c’è la morte; quando c’è la morte, non ci siamo noi.”

Concetto Chiave: Atarassia

La vera libertà è l’assenza di turbamento. È la pace dell’anima che si raggiunge “vivendo nascosti”, liberandoci dai desideri superflui e dalle paure infondate.

4. San Tommaso: Il Rischio del “Liberum Arbitrium”

Nel pensiero cristiano, la libertà è un dono divino fondamentale: il libero arbitrio (*liberum arbitrium*), la facoltà di scegliere.

Questa stessa facoltà è però un rischio. La prigione è il peccato: l’uso errato della nostra libertà, la scelta del male.

La liberazione, quindi, è il percorso della Grazia e della Fede che “curano” la nostra volontà e la ri-orientano verso il Bene (Dio), che è il nostro fine ultimo.

5. Giordano Bruno: La Liberazione dal Dogma

Alle soglie della modernità, la prigione torna ad essere esterna: è il dogma.

Sono le catene imposte dalla tradizione, dalla filosofia aristotelica e dall’autorità religiosa che ingabbiano il pensiero in un cosmo finito e gerarchico.

La liberazione è la scoperta dell’universo infinito. L’anima umana, scintilla di questo infinito, ha un desiderio infinito di conoscenza.

Concetto Chiave: Eroico Furore

È lo slancio intellettuale e passionale che spinge l’uomo a superare ogni limite per unirsi con l’infinito. La libertà di pensiero è un valore assoluto, da difendere fino al rogo.

Fine della Prima Lezione

Riepilogo: Dalla conoscenza di sé (Socrate) e la virtù pratica (Aristotele), alla pace interiore (Epicuro), fino all’adesione al divino (Tommaso) e alla rottura eroica dei limiti (Bruno).

Seconda Lezione

Il Labirinto della Libertà Moderna:
Autonomia, Volontà, Esistenza

La Svolta Moderna: Le Prigioni Interiori

Con la modernità, il campo di battaglia della libertà si sposta all’interno dell’individuo.

Le catene non sono più (o non solo) il cosmo, Dio o la paura della morte. Le prigioni più difficili da espugnare sono dentro di noi: le nostre passioni, la nostra ragione, la nostra stessa volontà.

6. Kant: La Prigione dell'”Eteronomia”

Per l’Illuminismo kantiano, la prigione è l’eteronomia (da *heteros*, “altro”, e *nomos*, “legge”).

Siamo schiavi ogni volta che lasciamo che la nostra legge morale ci venga dettata da qualcosa di esterno a noi:

  • Dalle nostre passioni (“faccio così perché mi piace”).
  • Dall’autorità (“faccio così perché lo dice il Re / il Prete”).
  • Dalla tradizione (“faccio così perché si è sempre fatto così”).

Kant: La Liberazione come “Autonomia”

Il percorso di liberazione è il motto stesso dell’Illuminismo:

“Sapere Aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”

La libertà è Autonomia (da *autos*, “se stesso”, e *nomos*, “legge”). È la capacità della ragione di dare legge a se stessa.

Kant: La Libertà è Obbedire alla Ragione

Siamo veramente liberi solo quando agiamo moralmente, cioè quando la nostra volontà sceglie di obbedire alla legge morale che la nostra stessa ragione scopre dentro di noi.

Questa legge è l’Imperativo Categorico.

Per Kant, la libertà non è fare ciò che ci piace, ma fare ciò che dobbiamo, scegliendo razionalmente di farlo.

7. Schopenhauer: La Prigione della Volontà

Dopo Kant, il pensiero romantico e idealista rovescia la prospettiva. Per Schopenhauer, la ragione è solo un’illusione.

La vera prigione è la realtà stessa. Il mondo è dominato da una forza cieca, irrazionale ed eterna: la Volontà di Vivere.

Noi non siamo liberi. Siamo solo marionette di questa Volontà che ci costringe a desiderare, lottare e soffrire, in un ciclo infinito e senza senso.

Schopenhauer: La Liberazione DALLA Volontà

Se la vita è prigionia e sofferenza, la liberazione non può essere *nella* vita, ma *dalla* vita.

Il percorso di liberazione ha tre tappe:

  1. L’Arte (una liberazione temporanea, contempliamo le idee senza desiderio).
  2. La Pietà (com-patire il dolore altrui).
  3. L’Ascesi (la liberazione definitiva).
Concetto Chiave: Noluntas

La vera libertà è la Noluntas: la negazione della volontà stessa, lo spegnimento del desiderio, il raggiungimento del Nirvana.

8. Nietzsche: La Prigione della “Morale degli Schiavi”

Nietzsche accetta la premessa di Schopenhauer (il mondo è caos irrazionale) ma ne rovescia la conclusione. La sua è una filosofia del “Sì” alla vita.

L’annuncio “Dio è morto!” non è una tragedia, ma una liberazione.

La vera prigione è la morale giudaico-cristiana: una “morale degli schiavi” nata dal *ressentiment* (risentimento) dei deboli, che ha definito “peccato” tutto ciò che è forte, nobile e vitale.

Nietzsche: La Liberazione come “Volontà di Potenza”

Il percorso di liberazione passa per il rifiuto dei vecchi valori e la creazione di nuovi. È il passaggio dall’uomo all’Oltreuomo (*Übermensch*).

La libertà non è negare la volontà (Schopenhauer), ma potenziarla.

Concetto Chiave: Volontà di Potenza

Non è il desiderio di dominare gli altri, ma la volontà di auto-superamento, di imporre la propria volontà creatrice sul caos e di diventare ciò che si è.

Nietzsche: L’Accettazione Totale (“Amor Fati”)

Il test supremo della liberazione nietzschiana è l’accettazione dell’Eterno Ritorno dell’Uguale.

Saresti libero e felice di rivivere questa stessa vita, con i suoi dolori e le sue gioie, infinite volte?

L’Oltreuomo è colui che risponde “Sì!” e pratica l’Amor Fati: l’amore per il proprio destino, qualunque esso sia.

9. Sigmund Freud: La Terza Rivoluzione

Il ‘900 si apre con una nuova, profonda messa in discussione della libertà.

Dopo Copernico (non siamo al centro dell’universo) e Darwin (siamo animali), Freud compie la terza “rivoluzione” o “umiliazione” per l’uomo.

“L’Io non è padrone in casa propria.”

La nostra libertà cosciente è un’illusione.

Freud: La Prigione dell’Inconscio

La nostra mente è un campo di battaglia. La nostra apparente libertà è in realtà determinata da forze che non controlliamo.

Siamo prigionieri di un conflitto tra:

  • Es (Id): Le pulsioni biologiche, l’istinto, il principio di piacere.
  • Super-Io (Super-Ego): La morale interiorizzata, il genitore, il giudice, il senso di colpa.
  • Realtà Esterna: I vincoli del mondo.

L’Io (Ego) è il povero mediatore che cerca di non impazzire.

Freud: “Il Disagio della Civiltà”

Anche la società è una prigione. Per vivere insieme (la Civiltà o *Kultur*), dobbiamo reprimere le nostre pulsioni (sesso e aggressività).

Abbiamo scambiato la nostra felicità (libertà pulsionale) con la sicurezza.

“Il prezzo del progresso si paga con la riduzione della felicità, dovuta all’intensificarsi del senso di colpa.”

Freud: La Liberazione come Consapevolezza

La liberazione freudiana non è una libertà assoluta (impossibile), ma un faticoso aumento di consapevolezza.

Il percorso è la psicoanalisi: portare alla luce i traumi, i desideri e i conflitti rimossi.

L’Obiettivo: “Wo Es war, soll Ich werden”

(“Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”). La liberazione è sostituire la coazione inconscia con la scelta (per quanto limitata) dell’Io.

10. L’Esistenzialismo: La Libertà al Centro

Con Heidegger e Sartre, la libertà non è più solo un *problema* filosofico, ma diventa l’essenza stessa dell’esistenza umana.

L’uomo è l’unico ente il cui modo di essere è l’interrogarsi sul proprio essere, e quindi… scegliere.

Heidegger: La Prigione dell’Esistenza Inautentica

L’uomo è *Dasein* (Esser-ci), un essere “gettato nel mondo” senza averlo chiesto.

La prigione è l’esistenza inautentica: la fuga dalla nostra unicità per rifugiarci nell’anonimato del “Si” (das Man).

  • Si dice, si fa, si pensa…
  • È la vita dominata dalla “chiacchiera”, dalla “curiosità” e dall'”equivoco”.

Heidegger: La Rivelazione dell’Angoscia

Come ci si libera? La via è annunciata da un’emozione fondamentale: l’Angoscia (*Angst*).

L’Angoscia non è “paura” (che è sempre *di qualcosa*), ma è l’angoscia *del nulla*. Ci fa sentire spaesati e ci rivela la nostra vera condizione.

L’Angoscia ci mette di fronte alla nostra “possibilità più propria”: l’essere-per-la-morte.

Heidegger: La Liberazione come Esistenza Autentica

L’uomo non è una cosa fissa, ma è “poter-essere” (possibilità).

La liberazione è l’esistenza autentica. Consiste nell'”anticipazione della morte”: vivere sapendo di dover morire ci libera dalla banalità e ci costringe a scegliere.

La libertà autentica è assumersi la responsabilità del proprio, unico progetto di vita.

11. Sartre: “L’Esistenza Precede l’Essenza”

Sartre porta l’esistenzialismo alle sue estreme conseguenze.

Prima esistiamo (“gettati nel mondo”), e solo *dopo*, attraverso le nostre scelte, definiamo chi siamo (la nostra “essenza”).

Non c’è una natura umana, non c’è un Dio che ci ha progettati. Siamo radicalmente liberi.

Sartre: La Prigione della “Malafede”

Questa libertà assoluta è terrificante. Genera Angoscia.

La prigione è la “malafede” (*mauvaise foi*): è la fuga dalla libertà. È il mentire a noi stessi, pretendendo di *dover* essere in un certo modo (un cameriere, un professore, un “bravo ragazzo”), come se fossimo una cosa (un *essere-in-sé*) e non una pura possibilità (*essere-per-sé*).

Sartre: La Prigione dello Sguardo Altrui

La nostra libertà è minacciata anche dallo sguardo dell’Altro.

Lo sguardo altrui ci “reifica”, ci trasforma in un oggetto, ci definisce. Ci ruba le nostre possibilità e ci giudica. È in questo senso che va intesa la famosa frase:

“L’inferno sono gli altri.”

Sartre: La Liberazione come “Condanna”

Per Sartre, non c’è una vera “liberazione”, perché siamo già liberi. Non possiamo non esserlo.

“L’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.”

La “liberazione” consiste solo nell’accettare questa condanna e nell’assumersi la responsabilità totale di ogni nostra scelta.

12. Wittgenstein: L’Ultima Prigione

Il percorso del ‘900 si conclude con una prigione inaspettata: non la morale, non l’inconscio, ma il linguaggio stesso.

Molti dei nostri grandi problemi (cos’è l’Essere? cos’è la Volontà? cos’è la Libertà?) non sono problemi reali, ma “crampi mentali”.

Sono malattie causate da un uso scorretto del linguaggio, che ci intrappola in “giochi” che non comprendiamo.

Wittgenstein: La Liberazione come Chiarezza

Il percorso di liberazione è la filosofia intesa come terapia.

Il suo scopo è “mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia”.

La libertà non è trovare la risposta, ma *dissolvere la domanda*. È la chiarezza: comprendere come funziona il nostro linguaggio e quali sono i suoi limiti.

“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.”

Conclusione: Il Filo Rosso (Antichità)

Il percorso di “liberazione” ci ha portati a fuggire:

  • Dall’Ignoranza di noi stessi (Socrate)
  • Dagli Estremi e dagli impulsi (Aristotele)
  • Dalla Paura della morte e degli dèi (Epicuro)
  • Dal Peccato come cattivo uso del volere (Tommaso)
  • Dai Dogmi e dai limiti del pensiero (Bruno)

Conclusione: Il Filo Rosso (Modernità)

Il viaggio moderno ci ha portati a liberarci:

  • Dall’Eteronomia e dalle passioni (Kant)
  • Dalla Volontà di Vivere cosmica (Schopenhauer)
  • Dalla Morale del risentimento (Nietzsche)
  • Dall’Inconscio e dal senso di colpa (Freud)

Conclusione: Il Filo Rosso (Contemporaneità)

Infine, il ‘900 ci ha chiesto di liberarci:

  • Dalla Banalità dell’esistenza inautentica (Heidegger)
  • Dalla “Malafede” che nega la nostra libertà (Sartre)
  • Dalle Trappole del Linguaggio (Wittgenstein)

La Libertà Oggi

Il viaggio della filosofia ci mostra che la libertà non è mai un traguardo raggiunto una volta per tutte, ma una conquista e una responsabilità costanti.

La domanda finale che resta aperta è:

Quali sono le nostre prigioni contemporanee? E quali i nostri percorsi di liberazione?

Grazie per l’attenzione.

Sabbia sul marmo.

Sabbia sul marmo.

E se un santo, un attimo prima del martirio, invece di contemplare il paradiso facesse i conti con i propri vizi? E’ l’ipotesi di Joseph Tassone, giurista e capoufficio dei servizi funerari del Comune di Trento,  in “Sabbia sul marmo” (ViTrenD editore). L’opera immagina gli ultimi pensieri di Tommaso Moro, il quale, in attesa dell’esecuzione, non contempla le sue virtù ma si confronta con i sette vizi capitali. L’idea centrale del libro è un potente ribaltamento: Tommaso Moro, alla vigilia della morte, non contempla le virtù per cui sarà canonizzato, ma fa i conti con i sette vizi capitali.

A Tassone abbiamo domandato: da dove nasce l’urgenza di esplorare la fragilità di una figura così monumentale? 

Tommaso Moro era una persona dotata di grande ironia, e non esiste ironia autentica se non la si rivolge anche verso sé stessi. L’ironia non è sempre allegria; è un modo deformato di vedere il mondo, di avvertire il suo contrario. Ho sempre pensato ai grandi personaggi, a coloro i quali hanno raggiunto le vette di un ideale, sia esso di santità, sapere o politica. Dietro la facciata esiste un “intimo”, un “minimo”, un lato il quale al postero fa comodo dimenticare, essendo più facile celebrare le cose semplici. Immagino quest’uomo di saggezza e ponderazione, e non credo si sia fatto uccidere a cuor leggero. Il suo non fu un atto di eroismo nel senso corrente, ma di accettazione di una situazione in vista di un bene più alto: la coerenza con sé stesso. 

Nella sua biografia si legge che lei di professione è capo ufficio dei servizi funerari. Quanto di questa esperienza è confluito in un’opera che è meditazione di un uomo sull’orlo del sepolcro?

Il mio lavoro non può non aver confluito in quello che ho scritto. La malattia ti dà il senso della possibilità, la morte ti dà la certezza della fine. Questa consapevolezza ha influito di sicuro. Spesso, guardando le persone composte dopo la morte, immagino cosa abbiano pensato durante il gran salto. Quale sia stato l’ultimo pensiero. Poi sorrido, pensando: “magari hanno pensato che gli piace la marmellata”. Sarebbe un pensiero bellissimo con cui andarsene. Bisogna imparare il rispetto verso tutti i pensieri, soprattutto quelli in limine. Sulla morte rifletto da sempre, anche perché ne sono preoccupato. Quando mi hanno proposto il trasferimento ai servizi funerari, mia madre commentò: “Beh, lo sapevo io che tu prima o poi lì finivi”. Meglio di mio padre, il quale disse: “Ti abbiamo fatto studiare per quello?”. 

Lei ha una formazione da giurista.Il suo libro sembra un processo intimo, dove Moro è al tempo stesso imputato, avvocato e giudice di sé stesso. Questa struttura processuale della coscienza deriva dalla sua formazione?

Moro, in verità, si è già imputato prima di iniziare a scrivere; parte dal presupposto di aver attraversato tutti i vizi. Lui però non proferisce la condanna. Essendo un uomo aderente a quel credo, sa di non avere il diritto di condannarsi, così come non ha il diritto di salvarsi. Può solo concorrere al giudizio e affidarsi alla misericordia di Dio. Nel processo di confessione sacramentale, come diceva Dante, ci sono l’esame, la contrizione e il proposito. Lui l’esame lo sta facendo, ne è contrito. Per il proposito ha poca speranza, aspettandolo il boia il giorno dopo, ma non si condanna.

La scelta di Moro di non giurare è l’atto di disobbedienza civile per eccellenza. In un’epoca di polarizzazioni e conformismo come la nostra, che valore ha la sua testimonianza?

Di Tommaso Moro mi ha sempre colpito proprio questo: il silenzio. Non c’è un atto di ribellione, c’è una disobbedienza. Lui non giura e se ne sta dov’è. Il significato, trascendente la sua persona e la sua epoca, è la libertà di coscienza. Ma ciò che mi intriga ancora di più è la coerenza. Per quanto riguarda i vizi, i marinai cambiano mare, ma non cuore. L’uomo ha uno scheletro il quale resta uguale a sé stesso nello scorrere delle generazioni. La polpa intorno è fatta di eredità culturale, incontri, caso. Altrimenti perché continueremmo a portare, sul luogo in cui riposano i nostri cari, le stesse offerte delle popolazioni antiche? Oggi magari mettiamo un codice QR vicino alle tombe, lo inquadri e vedi il morto animarsi con l’intelligenza artificiale. A me non piace, ma cos’è questo se non una lunga lapide scritta da altri, con uno scalpello divenuto tecnologico?

(Articolo pubblicato sul quotidiano L’Adige il 13 luglio 2025)

Il dilemma dell’IA: tra futuro radioso e declino umano.

Il dilemma dell'IA: tra futuro radioso e declino umano.

Tra la promessa di un futuro radioso e il rischio di un’umanità disumanizzata: l’Intelligenza Artificiale ci pone di fronte a un bivio. Lunedì 3 marzo 2025 la Fondazione Bruno Kessler di Trento ha ospitato un seminario per discutere “Il ruolo dell’IA tra conservazione e trasformazione” che ha visto la partecipazione di Paolo Ercolani, docente di filosofia all’Università di Urbino e autore del libro “Nietzsche l’iperboreo. Il profeta della morte dell’uomo nell’epoca dell’Intelligenza artificiale” (Il Melangolo). 

L’avvento dell’Intelligenza Artificiale ha portato con sé un acceso dibattito sui suoi effetti sull’umanità. Ercolani sostiene che l’abuso di IA stia causando danni a livello cognitivo. Gli abbiamo chiesto di spiegarci meglio questa affermazione.

” Diversi studi evidenziano un calo del quoziente intellettivo medio della popolazione a partire dal 2009, anno di diffusione degli smartphone, e quindi di un accesso costante all’intelligenza artificiale. Per oltre cento anni, dal 1907 al 2009, il quoziente intellettivo medio era invece aumentato, grazie alla scolarizzazione, ai libri, ai giornali. Inoltre, in Italia il 40% della popolazione soffre di analfabetismo funzionale: sa leggere e scrivere, ma non capisce ciò che legge. E c’è un altro dato allarmante: la principale causa di morte tra i nativi digitali è il suicidio, un fenomeno mai verificatosi prima d’ora in questa fascia d’età. I giovani si dichiarano tristi, depressi, privi di speranza, imprigionati in una bolla alienante fatta di cellulari e social media, con la costante necessità di controllare il proprio smartphone e le proprie pagine social. Questa dipendenza li rende ansiosi, li fa sentire costantemente in vetrina, sotto giudizio, inadeguati. L’IA sta quindi contribuendo a una mutazione antropologica, con una degenerazione a livello cognitivo, emotivo e relazionale. È una generazione più sola, che paradossalmente, pur essendo la più “social” di sempre, smette di vedersi con gli amici in carne e ossa, preferendo restare a casa davanti al computer o allo smartphone. “

Il tema della conferenza di Trento è “Il ruolo dell’AI tra conservazione e trasformazione”. L’IA può avere un ruolo nella salvaguardia di valori e tradizioni?

“L’IA è un’invenzione straordinaria, probabilmente la più importante degli ultimi cento anni, con potenzialità enormi soprattutto in ambito medico ed economico. Grazie all’IA si può restituire la vista ai ciechi, la parola ai malati di SLA, si possono effettuare interventi chirurgici complessi, impossibili per un chirurgo umano. L’IA è anche il più grande business economico del nostro tempo, e lo sarà ancora per molti anni. Tuttavia, al momento è controllata quasi esclusivamente da privati, che mirano al profitto senza considerare gli effetti negativi. I social network, ad esempio, sono progettati per creare dipendenza, producendo sostanze chimiche come dopamina e ossitocina che danno piacere e assuefazione, come una droga. La politica dovrebbe intervenire per limitare e guidare questo fenomeno, ma purtroppo viviamo in un’epoca in cui la politica con la P maiuscola sembra essersi eclissata. “

Lei ha parlato di una “filosofia” dietro l’IA. Di cosa si tratta?

“Si tratta del transumanesimo, un movimento che mira a superare i limiti umani attraverso la tecnologia. I transumanisti si rifanno a Nietzsche e alla sua idea di superuomo, che vedono realizzato nei cyborg. Il loro obiettivo è creare un mondo divino in terra, il metaverso, dove saremo immortali, trasferendo le nostre coscienze e le nostre menti negli avatar. Non si tratta di visionari, ma di persone che investono milioni di dollari per realizzare questo progetto. Larry Page, il fondatore di Google, in un’intervista del 2019 a The Economist affermava di sapere già che non morirà. Lo stesso Elon Musk, lo scorso anno, annunciava che la sua società Neuralink aveva impiantato il primo microchip nel cervello di una persona. I transumanisti mirano a creare un nuovo tipo di umanità grazie alla bioingegneria. “

Questa visione transumanista la preoccupa?

“Come studioso, analizzo i fatti oggettivi e credo che ci sia da aver paura. La tecnocrazia si sta sostituendo alla democrazia, come dimostra l’influenza di figure come Elon Musk, che pur senza avere alcun incarico formale, siede di fatto alla Casa Bianca. La tecnocrazia sta sostituendo la democrazia “

Nel suo libro “Nietzsche l’iperboreo” lei propone una “risurrezione di Dio” come risposta a Nietzsche. Cosa intende?

“Nietzsche parlava della morte di Dio come crollo di valori e riferimenti, non si riferiva a un Dio specifico. Oggi rischiamo di deificare realtà umane come l’IA, dimenticandoci delle domande fondamentali sull’esistenza. Dobbiamo tornare a pensare in termini metafisici, riconoscendo che il divino, se esiste, è in un al di là e non può essere creato dall’uomo, come invece sostengono i transumanisti con il loro metaverso. Nietzsche voleva portare la metafisica sulla terra, e i transumanisti stanno realizzando il suo progetto. “

In che modo la riflessione teologica può contribuire a un uso responsabile dell’IA?

“La riflessione teologica e filosofica può aiutarci a mantenere uno sguardo critico sull’IA, evitando di considerarla una soluzione a tutti i problemi o una nuova divinità. Il mondo che è derivato dalla filosofia di Nietzsche è un mondo che ha visto regimi totalitari, bombe atomiche, inquinamento e sfruttamento del pianeta. Oggi, con il transumanesimo, stiamo assistendo all’apoteosi del nichilismo. Se vogliamo difendere l’umanità, dobbiamo tornare a pensare in termini metafisici. “

La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

Siamo circondati da un’indifferenza mortale: per Luciano Violante il vero male del nostro tempo è l’incapacità di affrontare il senso profondo della vita e della morte. 

Giurista, ex presidente della Camera e della Commissione antimafia, Violante ha dato inizio alla edizione 2004 dell’Agosto degasperiano (organizzato dalla Fondazione De Gasperi e il cui tema generale quest’anno è “Amare il nostro tempo”), sabato 27 luglio, con un intervento su “La maschera della morte e la legge della vita”, che è il sottotitolo del suo ultimo saggio “Ma io ti ho sempre salvato” (Bollati Boringhieri, 2024) dove scrive: “Non ci confrontiamo sul senso della morte perché non ci confrontiamo sul senso della vita”. 

Gli abbiamo chiesto quali cambiamenti sociali o culturali crede siano necessari per ricominciare ad affrontare il senso della vita e della sua “sacralità”?

“Sento molto parlare di dignità della morte, ma non di dignità della vita. C’è qualcosa di contorto nel nostro pensiero sulla contemporaneità. Dove di fatto siamo circondati dalla morte: ci sono circa cinquanta guerre in corso. Migliaia di persone migranti che muoiono in mare, nei deserti, per raggiungere un futuro migliore. Ma tutte queste morti le consideriamo “normali”: a volte si usa lo stesso termine, sui media, tanto per definire l’abbattimento di un edificio quanto per l’omicidio di una persona. In sostanza c’è una indifferenza nei confronti della morte da analizzare con attenzione e preoccupazione”. 

In che modo, come si vince l’indifferenza? 

“Bisogna andare ai fondamentali: la vita e la morte. Non la pace e la guerra che riguardano i “grandi decisori”. Vita e morte riguardano le persone. Bisogna fare una battaglia per la vita per poter mettere fine alle guerre. Mi colpisce molto lo slogan delle donne iraniane: donna, vita, libertà. Occorre dunque occuparsi di “bio-politiche”, di politiche per la vita. Bisognerebbe mettere assieme politiche dell’infanzia, della famiglia, della salute e del lavoro. Considerandole in maniera integrata, non separatamente. Tutto il contrario di quel che accade oggi in Italia: garantire una vita dignitosa è compito di ogni governo”. 

Quali insegnamenti possiamo trarre dalla tradizione classica e biblica per recuperare il senso della dignità della vita? 

“Sono un credente senza religione: ma se la lotta tra il bene e il male fosse già decisa a favore del bene che senso avrebbe la vita? Tutto sarebbe già prestabilito e orientato al bene. In realtà così non è: più volte nei Vangeli viene citata la presenza del satàn, in ebraico “l’accusatore”. Nell’ultima cena Gesù dice ai suoi che se ne andrà, ma il male resta con voi. E il senso della vita è proprio la lotta contro il male. Se si può dire: dobbiamo dare una mano a Dio. Come lui ha chiesto nell’Alleanza: possiamo costruire qualcosa assieme. Questo è il vero senso della vita. Dovremmo rifletterci di più ed essere coerenti”

Non rischiamo con questo una polarizzazione: credersi sempre dalla parte del bene non equivale alla radice di molti mali? 

“Condivido pienamente. Ma non penso ci si debba credere sempre dalla parte del bene: dico che è in atto uno scontro tra bene e male. Il bene è tra noi come il male. Il senso della vita è questa lotta per far vincere il bene. Non che esista  un bene assoluto da seguire ciecamente: non sono un seguace di Trump!”. 

Da poco è mancata sua moglie, Giulia De Marco: di fronte alla morte delle persone care se non si ha una fede religiosa, non si crede nell’immortalità dell’anima, come si può  restare razionali ed accettare la “fine” di chi si ama? 

“Credo in un’idea laica di sacralità: ciò che non è ripetibile ed è un valore, come la vita e la morte, è sacro anche per un laico. Intangibile e non manipolabile. Vita e morte non sono ripetibili, sono uniche. Dati essenziali della vita di una persona. Di qui una laica sacralità di questi momenti. Ne consegue un profondo rispetto della vita e della morte. Di fatto nella frenesia del nostro tempo la morte “interferisce sgarbatamente”: quando sentiamo che è morto qualcuno il fatto ci distoglie dalle nostre faccende quotidiane. Più di una volta mi è capitato di vedere mancanza di rispetto nei confronti della morte. In un passato anche recente la morte era qualcosa di importante su cui soffermarsi: un fatto sociale. Un riconoscimento della persona e della sua storia, dei suoi rapporti. Adesso la morte significa, quasi sempre, solitudine. 

Come ex magistrato e politico, come ha influenzato la sua percezione della morte il suo lavoro nella lotta contro la mafia, un contesto in cui la vita e la morte sono spesso in stretta vicinanza?

“Mi è capitato, per fortuna mia e adeguatezza degli altri, di essere vivo. Nonostante i vari tentativi per fermarmi. Quando si fa un lavoro in cui si crede, non si pensa da altro. Importante che chi ti è caro sappia che può accadere”. 

Parlando di amore del nostro tempo, tema dell’ Agosto degasperiano, quale aspetto del nostro tempo ritiene più amabile e utilizzabile nella costruzione di una società più giusta e umana? 

“Il nostro è il tempo della scoperta, della ricerca e delle novità: questo è l’aspetto che amo della nostra contemporaneità. Penso allo spazio, alla ricerca in medicina, alle innovazioni digitali. Vedo però una certa propensione al conflitto che non mi piace: la tendenza poi a risolvere i conflitti con le punizioni e le aggressioni. La guerra è tornata ad essere lo strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Le diplomazie non esistono più”. 

Alcide De Gasperi è stato figura centrale nella costruzione della democrazia italiana. Quali aspetti del suo pensiero politico ritiene più rilevanti e attuali per affrontare le sfide contemporanee?

“Sono diventato  un grande ammiratore di De Gasperi, dopo averlo studiato: in una situazione di grande difficoltà in cui il Vaticano, l’ambasciata americana e altri gli chiedevano di mettere al bando comunisti, socialisti e sindacati, lui si è sempre rifiutato di attuare misure liberticide. E’ stato un vero garante dei valori costituzionali. Unico errore è stata la legge del ‘53: il maggioritario ha sottratto voti a chi li aveva guadagnati e questo nella cultura dell’epoca non era accettabile. De Gasperi però, senza piantare bandiere, ha sempre difeso la laicità della Repubblica, nello scontro con Pio XII. La cosa importante di De Gasperi è che non voleva dividere il suo Paese: aveva a cuore unità e coesione, non la vittoria del suo partito. Si competeva per governare, non per vincere”. 

(Intervista pubblicata sul quotidiano L’Adige il 27 luglio 2024 link al PDF della pagina) .

Vite ferme e storie di migranti in attesa.

L’invisibilità non paga. I tagli sulla accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non solo sono modi  per non far integrare i migranti, ma sono anche antieconomici. E’ quanto emerge da uno studio sociologico, in forma di narrazione, scritto da Paolo Boccagni, professore ordinario di sociologia all’Università di Trento. “Vite ferme” (Feltrinelli)  è il titolo del saggio, nato dopo una lunga e paziente permanenza in una residenza per migranti. 

A Boccagni abbiamo chiesto quali sono state le sfide e le scoperte più significative durante questo processo

“Vite ferme nasce dal tempo che ho avuto il privilegio di trascorrere in un centro di accoglienza, da ospite di chi vi veniva ospitato. Grazie ai migranti e agli operatori ho potuto avvicinarmi all’esperienza della vita in attesa, in una “bolla” di protezione che risponde ai bisogni primari ma non all’esigenza di costruire nuovi progetti di vita, oltre l’incertezza del presente. Di cose ne ho scoperte parecchie. Una, forse non banale, è che sapevo poco delle storie e delle vite di queste persone. Ci sono ostilità, discriminazioni e pregiudizi, ma anche la fatica delle sofferenze vissute, delle aspettative disattese, della vita da rifare. C’è tanto tempo vuoto, potenzialmente a disposizione, e pochissima possibilità di controllarlo”. 


Quali raccomandazioni emergono dal suo lavoro per affrontare meglio le sfide dell’integrazione?

“Il libro non parla di immigrazione in senso stretto. E’ una raccolta di storie di vita di giovani uomini, per lo più neri e africani, che sono anche richiedenti asilo. Nasce dall’idea che mettere al centro l’umanità di ciascuno, e i contorni della vita quotidiana di tutti, possa ridurre qualche distanza e sgretolare qualche schema preconcetto. Vite ferme ha un taglio deliberatamente narrativo, più che “prescrittivo”. Chiunque lo legga, però, credo potrebbe arrivare alla stessa conclusione: i tagli sull’accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno e raccogliere qualche voto in più, ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza (e di relativa repressione), meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine. L’invisibilità non paga. Le persone migranti non se ne andranno soltanto perché si cerca di tenerle fuori dal quadro della vita collettiva. Al massimo staranno peggio di prima e contribuiranno, nel loro piccolo, a far crescere l’ansia, l’incertezza e il rancore di tanti, di tutti i colori di pelle”.

Quali miti o stereotipi sul fenomeno migratorio si possono sfatare attraverso il suo lavoro?


“Mi piacerebbe che il libro contribuisse a far vedere le persone e le loro storie, prima delle etichette che portano o dei problemi che hanno. C’è un certo grado di attenzione pubblica, con molte oscillazioni emotive, per gli sbarchi, ma poco o nulla su quello che succede dopo – l’inizio di una nuova vita che, purtroppo, non sembra troppo diversa da quella vecchia. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del “fenomeno migratorio” come entità a se stante: una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa dalla popolazione locale. Esistono, invece, percorsi e incroci di persone che, anche quando portano con sé paure, povertà e progetti di famiglie e comunità intere, hanno una loro soggettività. Ogni stanza del centro ospita una storia che non si sovrappone automaticamente con tutte le altre. Sono persone per lo più giovani che inseguono gli stessi sogni e modelli di tanti loro coetanei, con diritti, risorse e opportunità radicalmente inferiori.  


Qual è il ruolo della ricerca accademica nel contesto attuale delle politiche sull’immigrazione?  

“La ricerca scientifica ha sempre faticato ad avere voce nelle politiche sull’immigrazione, e oggi più che mai. Ci sono differenze di linguaggi, di culture (tutti i populisti del mondo diffidano degli intellettuali), di orizzonti temporali (la ricerca illusoria di soluzioni pronte per l’uso), per non parlare dell’incapacità di molti ricercatori nel farsi capire fuori dalla propria bolla. In questo come in tanti campi, le politiche pubbliche soffrono lo iato tra i tempi brevi del consenso, dei media e delle carriere politiche, e i tempi lunghi di qualsiasi investimento in una società migliore. Trovare luoghi e canali di comunicazione rilevanti per tutti, che scardinino la divisione ideologica e insensata tra “favorevoli” o “contrari” all’immigrazione a partire da vissuti comuni, può contribuire a indebolire la barriera tra accademia e politica. Non per dare raccomandazioni, ma per invogliare a guardare le cose fuori dai quadri mentali in cui ci adagiamo abitualmente”.

Come pensa che la società e le istituzioni potrebbero migliorare l’equità e l’inclusione per le comunità migranti?


“I percorsi di accoglienza sono incerti e complessi per definizione. Per definizione, però, la protezione internazionale non è una gentile concessione umanitaria, ma un diritto. Lo sviluppo delle politiche degli ultimi anni, nazionali e locali, l’ha ridotta all’osso, come in una profezia che si autoavvera. Si dice che gli immigrati sono incapaci di integrarsi, dopo che si sono create tutte le condizioni perché l’integrazione fallisca. La realtà, nel centro di Vite ferme e in tanti altri posti simili, è diversa. Nonostante la marginalità, la sofferenza e la povertà, chi ce l’ha fatta fino a qui è resiliente, volitivo, capace di sacrificarsi per tendere a una vita normale – non così penalizzata dall’angolo della terra in cui è nato. Ci sono criticità importanti, nell’accesso al mercato abitativo e del lavoro oltre che ai servizi, che hanno bisogno di tempo e di amministrazioni pubbliche più illuminate, nell’interesse di tutti. E c’è, dentro e fuori le istituzioni, la vita reale di chi tesse relazioni, accompagna, insegna, rivendica. E’ dalle iniziative dal basso, e dalla capacità di partecipare agli spazi pubblici in forme di sociabilità inclusiva, che ci possiamo aspettare di più in questi anni. Difficile avere grandi aspettative verso le politiche pubbliche, fino a che il vento del nativismo (con tutte le crisi che lo nutrono) continuerà a soffiare così forte”.  

Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Nel rapporto tra generazioni, tra adulti e adolescenti, non si può semplificare: non ci sono ricette facili per affrontare la complessità e le novità del modo in cui ragazze e ragazzi interpretano il loro corpo, gli ambienti virtuali, le relazioni e l’identità anche di genere. Ne ha parlato lo psichiatra, psicoterapeuta e docente universitario Gustavo Pietropolli Charmet a Vigolo Vattaro, domenica 20 agosto 2023 per l’Agosto degasperiano, organizzato dalla Fondazione trentina Alcide De Gasperi. In particolare, per lo psicoterapeuta, durante la pandemia gli adulti non sono riusciti a parlare con i giovani dei veri problemi e delle questioni cruciali come la morte. 

“Uno dei compiti della generazione degli adulti è di presentare ai cuccioli che si aprono alla vita, tutte le dimensioni della realtà – spiga Pietropolli Charmet – anche quelle della sconfitta, della perdita, della privazione, della malattia e infine della morte. L’attuale modello educativo degli adulti è orientato in una direzione completamente diversa: l’obiettivo sembra  occultare la dimensione della sconfitta, a favore della dimensione del trionfo, della vittoria, del successo e  della ricchezza. Una visione estremamente edulcorata di ciò che succede nella vita. Questo da un lato illude, crea aspettative, induce i ragazzi a tentare di aver successo e affermazione. Nella realtà però il riconoscimento della propria bellezza e unicità non è così facile da ottenere: emergono le dimensioni dell’insuccesso, della rabbia e rottura della relazione di fiducia nei confronti di chi aveva illuso, descrivendo la vita come una passeggiata, mentre in concreto, a cominciare dalle scuole superiori, la faccenda diventa parecchio difficile. 

L’esperienza del Covid ha quindi fatto emergere difficoltà già presenti? 

“La fragilità delle nuove generazioni è riconducibile ad una serie di fattori, ma sicuramente anche al fatto di essere esposti alla delusione rispetto ad aspettative di successo difficili da ottenere. Il periodo del Covid è stato esemplare: davvero gli adulti hanno taciuto ai giovani quanto grave fosse la situazione e come fossero minacciati i fondamenti stessi della nostra vita. Gli adulti attiravano l’attenzione sul rispetto delle regole, non assembramenti, distanza: tutte cose che ai ragazzi sono sembrate facili da rispettare ed hanno rispettato. Salvo poi fare i conti con l’atmosfera generale: quella della grande paura rispetto al futuro. Un attacco durissimo alle strutture portanti della vita dei ragazzi: con la scuola che traballava, incerta sul da farsi, chiusa o socchiusa. Una situazione in cui emergevano  difficoltà e fragilità  della nostra realtà sociale, contraddicendo la teoria di una vita facile e predisposta per il successo, felicità e riconoscimento della persona”. 

Quindi cosa è mancato da parte degli adulti? 

“Credo che la generazione degli adulti avrebbe dovuto farsi carico di una “educazione alla morte”, un allenamento all’esperienza dell’insuccesso e della frustrazione. Altrimenti quando viene messa in discussione la certezza del diritto ad avere successo arrivano le grandi delusioni e con esse le conclusioni estreme dei giovani: non vale la pena, è tutto un inganno, meglio il ritiro sociale”. 

Sostanzialmente la sua analisi di qualche tempo fa sul passaggio da un modello edipico dell’educazione, con l’opposizione alla figura autoritaria del padre, ad uno narcisistico in cui i giovani sono super amati e iper valutati dai genitori, viene totalmente confermato dall’esperienza del Covid? 

“E’ una questione centrale se vogliamo discutere della relazione tra le generazioni. Il principio di autorità è messo seriamente in discussione. Accade ad un livello generale nel nostro Paese, a cominciare dalle strutture politiche, ma poi nella famiglia e nella scuola. La figura paterna ne è pienamente coinvolta: il padre si ritrova a non svolgere più  la sua funzione: far rispettare le regole anche a suon di minacce e pratiche di castighi molto temibili. Questo abbandono di un ruolo paterno e il passaggio da una funzione autoritaria ad una accuditiva ha però molto migliorato le relazioni tra le generazioni. Solo fino a qualche tempo fa la relazione era caratterizzata da una contestazione accanita che coinvolgeva tutte le figure educative: quella del padre, del docente fino all’autorità dello Stato. La diminuzione dell’importanza della regola a favore dell’importanza della relazione e quindi la realizzazione di una pace conveniente sia in famiglia che a scuola, ha ridotto moltissimo il livello della contestazione. Dall’altra parte si è aperta la strada a una possibile contrattazione delle relazioni tra le due generazioni. Quel che accade tutt’oggi: i ragazzi stanno cercando degli adulti competenti, ma proprio a questo livello può esserci qualche difficoltà. Per gli adulti non è facile capire bene che vita fanno gli adolescenti, quali siano i loro problemi e come si possano da un lato aiutare e dall’altro indirizzare, proponendo loro soluzioni alternative a quelle a volte troppo complesse”. 

Quel che manca è anche una fiducia reciproca tra agenzie educative, scuola e famiglia? 

“Effettivamente dovrebbe esserci una alleanza tra scuola e famiglia incentrata su questa domanda: ma cosa sta succedendo tra i ragazzi, qual’è il significato dei loro comportamenti? Perché questa centralità del gruppo? Perché questa dipendenza dal gruppo degli amici e dei valori ideali che il gruppo trasmette attraverso internet? Questo credo sia un problema cruciale: chiederci a che punto siamo nella conoscenza, necessaria da parte degli adulti, per avere una maggiore possibilità di accogliere la richiesta di aiuto dei ragazzi di essere aiutati a crescere. Occorre qualcuno che sveli loro il segreto della conoscenza e quanta fatica si debba fare per realizzare la propria crescita personale. La difficoltà oggi è incentrata sulla incapacità  di capire bene il “senso delle novità”: il nuovo modo di amare, di intrattenere una relazione, quello di gestire i conflitti tra coetanei”. 

Nel suo ultimo saggio “Gioventù rubata” (Rizzoli) emerge il ruolo della rete e dei social: dal suo punto il mondo virtuale ha solo delle criticità?

“E’ un’altra difficoltà degli adulti: dare il giusto peso all’importanza, qualità e significatività affettiva delle relazioni di amicizia “virtuale”. Per loro non c’è differenza tra amicizia virtuale e quella che si realizza nell’ambito sociale. Quando ne parlano o raccontano eventi relazionali dell’uno e dell’altro tipo di amicizia si capisce che per loro non esiste differenza. Tanto più che spesso l’amicizia si trasforma in affetto e amore: il mondo virtuale è per i giovani una soluzione alle difficoltà della vita. Si trasferiscono, armi e bagagli, nella dimensione virtuale, dove tutto sembra più facile perché è possibile esercitare un maggiore controllo, si è meno esposti agli imprevisti”.

Da psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica, come giudica il fatto che attualmente Freud sembra dimenticato e prevale  la linea delle neuroscienze o del comportamentismo, dove si cercano presunte oggettività “scientifiche” con cui misurare e modellare i comportamenti umani? 

“Fa parte delle leggi del mercato: la  “merce psicoanalitica” è troppo costosa e non dà garanzia di successo, mentre il comportamentismo o altre scuole di pensiero forniscono dei consigli, delle indicazioni o addirittura  indicano le regole di comportamento più adeguate per realizzare i propri scopi nella vita. Quindi tutto diventa più breve rispetto alle lungaggini psicoanalitiche: tutto più facile. Senza eccessi di sofferenza e tormento dell’indagine profonda. L’obiettivo non è capire a fondo la situazione, ma realizzare i propri scopi attraverso la strada più breve e meno dolorosa, dove è necessaria meno consapevolezza e responsabilità. Indubbiamente c’è una perdita importante da un punto di vista culturale, anche se dal punto di vista della salute pubblica non è male che si ricordino i criteri di base: la dimensione psicologica e quella relazionale. 

Di fronte a casi di giovani anoressiche o di adolescenti che “si tagliano” però è difficile trovare dei rimedi con la psicologia comportamentista o cognitiva. 

“E’ difficile per qualsiasi disciplina ottenere dei risultati stabili in tempi brevi. Questo è dovuto alla serietà e al vero significato del digiuno, del ritiro sociale o del tagliarsi: si tratta di un rifiuto sostanziale della propria corporeità e il bisogno di avere accesso ad una nuova dimensione corporea. Fino al desiderio di cambiare identità di genere: optare per una identità diversa. Il mettere in discussione la base percepibile di una realtà sessuale complica moltissimo la relazione con gli adulti, costretti a cambiare il nome del proprio allievo o figlio che ha deciso di chiamarsi in modo diverso. Tutto ciò è collegabile ad uno dei fenomeni più importanti di questa generazione: la liberazione dei costumi sessuali e l’assoluta libertà di identificazione e del significato del linguaggio del corpo con i suoi desideri ed enigmi. La complessità di questi fenomeni costituisce per gli adulti una sfida ardua, che comporta anche decisioni in certi casi drammatiche. Su queste questioni anche il mondo psichiatrico e psicoterapeutico è in difficoltà nel decidere quale sia il significato profondo da dare a questi rifiuti e perplessità sulla corporeità e decisioni categoriche di adolescenti di 13 o 14 anni che sostengono assolutamente di essere un’altra persona, non quella che gli altri vedono. Importante non è più la sessualità ma la personalità. 

Concludendo l’adolescenza è una malattia oppure la vediamo così perché la nostra cultura e società ci impedisce di comprendere qualcosa? 

Il rischio è proprio questo: di fronte alla complessità della vita adolescenziale si ricorre a drastiche operazioni riduttive e si usa il modello psicopatologico per dare senso agli eventi in corso. Questo è uno dei tanti rischi che sta correndo la nostra società: a livello educativo il rischio cresce perché i ragazzi si basano molto sul giudizio degli adulti  che corre sottotraccia e arriva nelle profondità della psiche. Quindi se la società considera l’adolescente un “malatino” che guarirà crescendo, giudizio denigratorio e privo di qualsiasi efficacia, il risultato può essere molto deleterio.

(Articolo pubblicato su L’Adige del 17 agosto 2023)

Marx antidoto alla guerra tra poveri.

Cosa accomuna una miniera di carbone dell’800, la catena di montaggio del modello T della Ford  e Amazon? Sono modalità per accumulare profitto, sfruttando i lavoratori. Marx non solo aveva ragione, ma le sue teorie sono completamente confermate oggi, secondo Paolo Ferrero nel suo ultimo saggio “Marx oltre i luoghi comuni” (DeriveApprodi editore).

A Ferrero abbiamo chiesto cosa resta attuale di Marx filosofo che, attraverso la “vecchia” dialettica hegeliana, prevedeva un evolversi della storia in direzione del socialismo.  

“L’impianto di Marx sta in piedi completamente e si è drammaticamente verificato. Egli ritiene il modo di produzione capitalistico “rivoluzionario”. Il capitalismo è un grande produttore di ricchezza, ma per Marx la ricchezza va socializzata. In alternativa si produce una situazione di barbarie, più precisamente di “annichilimento di entrambe le classi in lotta”. Noi siamo esattamente a questo punto: Marx parla di oggi, del capitalismo maturo e di quell’enorme  ricchezza che invece di produrre il benessere dell’umanità ha generato diseguaglianze pazzesche, distruzione della natura, razzismi”.

Col cambiamento dei mezzi di produzione, non più solo fabbriche d’un tempo, la logica dello sfruttamento del lavoro è la medesima? “Sono cambiate le forme: la Shell si occupava di petrolio, la General Motor di automobili  oggi Amazon si occupa di vendite on line. Tutte e tre sono forme diverse di concentrazioni di sistemi produttivi, ma dal punto di vista dello scopo sono uguali: forme di massimizzazione del profitto privato. Marx non fece infatti analisi del singolo processo produttivo, ma del sistema di valorizzazione del capitale che è lo stesso oggi e ducento anni fa”.

Se dunque il capitalismo usa le stesse modalità, oggi però le classi sociali sono profondamente cambiate: non esiste più quel proletariato che avrebbe potuto fare la rivoluzione? “I capitalisti hanno sconfitto i lavoratori ed hanno vinto la lotta di classe. Una parte significativa della battaglia è ideologica: sono riusciti a far credere ai poveracci, mazzolati dai padroni, che i loro veri nemici sono altri poveracci, i migranti. Il nazionalismo ha sempre avuto questo effetto: nella prima guerra mondiale si è riusciti a mettere contadini e operai uni contro gli altri in nome della “Nazione”. I padroni sono sempre riusciti in maniera egregia a spostare le energie delle classi povere nelle direzione che desideravano. I servi dei poteri forti, come Matteo Salvini, danno una mano a costruire questa guerra tra i poveri, mentre i ricchi ridono alle spalle dei popoli. Così come fecero fascisti e nazisti che costruirono nazionalismo e razzismo: fu la base della guerra tra poveri”.

Anche la crisi economica e del lavoro oggi “muove le masse”: sembra però che la direzione sia sempre quella dell’individualismo, non della socializzazione e del comunismo.

“Tutto è nato a partire dai tempi di Craxi che tagliò i quattro punti di contingenza,  e poi avanti fino ai giorni nostri: hanno iniziato a ripetere che “c’è scarsità”, “non ce n’è per tutti”.  La gente ha iniziato a pensare che se non c’è lavoro per il propri figli tanto meno deve esserci per l’immigrato.La scarsità però è  una balla colossale. L’umanità non è mai stata così ricca. La crisi non è di scarsità, ma di sovrapproduzione. L’unica cosa che veramente non funziona è che la ricchezza e mal distribuita. Alcuni dati concreti: la ricchezza privata italiana è pari a ottomila miliardi di euro: quella tedesca è quattromila miliardi.  Più della metà della ricchezza privata italiana è in mano al 10% della popolazione. Questo significa che il 10% degli italiani più ricchi ha nelle sue mani più della ricchezza dell’intera popolazione tedesca. Ne possiamo dedurre che l’Italia è un Paese povero? No: è un posto dove i ricchi sono pieni di soldi da far schifo alle spalle di quel popolo che viene volutamente rincretinito, a reti unificate, da 35 anni da centrodestra e centrosinistra, con la storia che “non ci sono soldi”. Salvini è l’utile strumento che serve a fregare il popolo italiano e invece che indicare i veri responsabili della povertà e del disagio istiga i poveri contro i migranti.

Oggi la parola “cattocomunista” è usata in modo deteriore, quasi come un insulto. A suo avviso quanto c’è degli ideali cristiani in Marx? “ Per Marx il centro dell’esistenza è la possibilità di condurre una vita degna di essere vissuta. La lotta per superare il capitalismo significa sforzo per usare la ricchezza affinché ogni uomo ed ogni donna possa realizzarsi. Questo è uno degli obiettivi dichiarati anche da Papa Francesco oggi: Marx ci arriva con il materialismo, non con lo spiritualismo religioso”.

Dunque “il senso della vita” per Marx non sta nell’accumulare,  ma nel condividere? “Solo un idiota pensa che riempirsi le tasche di soldi possa essere il suo scopo: i soldi e la ricchezza di fronte alla morte non possono nulla. Cosa se ne fa il ricco della sua abbondanza in punto di morte? Marx pone un problema: come fare perché tutti possano vivere decentemente per crescere come esseri umani? Il socialismo non è una caserma,  ma l’aver risolto i nodi concreti della sicurezza sociale per aprire agli individui la possibilità di sviluppare se stessi”.