Vite ferme e storie di migranti in attesa.

L’invisibilità non paga. I tagli sulla accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non solo sono modi  per non far integrare i migranti, ma sono anche antieconomici. E’ quanto emerge da uno studio sociologico, in forma di narrazione, scritto da Paolo Boccagni, professore ordinario di sociologia all’Università di Trento. “Vite ferme” (Feltrinelli)  è il titolo del saggio, nato dopo una lunga e paziente permanenza in una residenza per migranti. 

A Boccagni abbiamo chiesto quali sono state le sfide e le scoperte più significative durante questo processo

“Vite ferme nasce dal tempo che ho avuto il privilegio di trascorrere in un centro di accoglienza, da ospite di chi vi veniva ospitato. Grazie ai migranti e agli operatori ho potuto avvicinarmi all’esperienza della vita in attesa, in una “bolla” di protezione che risponde ai bisogni primari ma non all’esigenza di costruire nuovi progetti di vita, oltre l’incertezza del presente. Di cose ne ho scoperte parecchie. Una, forse non banale, è che sapevo poco delle storie e delle vite di queste persone. Ci sono ostilità, discriminazioni e pregiudizi, ma anche la fatica delle sofferenze vissute, delle aspettative disattese, della vita da rifare. C’è tanto tempo vuoto, potenzialmente a disposizione, e pochissima possibilità di controllarlo”. 


Quali raccomandazioni emergono dal suo lavoro per affrontare meglio le sfide dell’integrazione?

“Il libro non parla di immigrazione in senso stretto. E’ una raccolta di storie di vita di giovani uomini, per lo più neri e africani, che sono anche richiedenti asilo. Nasce dall’idea che mettere al centro l’umanità di ciascuno, e i contorni della vita quotidiana di tutti, possa ridurre qualche distanza e sgretolare qualche schema preconcetto. Vite ferme ha un taglio deliberatamente narrativo, più che “prescrittivo”. Chiunque lo legga, però, credo potrebbe arrivare alla stessa conclusione: i tagli sull’accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno e raccogliere qualche voto in più, ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza (e di relativa repressione), meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine. L’invisibilità non paga. Le persone migranti non se ne andranno soltanto perché si cerca di tenerle fuori dal quadro della vita collettiva. Al massimo staranno peggio di prima e contribuiranno, nel loro piccolo, a far crescere l’ansia, l’incertezza e il rancore di tanti, di tutti i colori di pelle”.

Quali miti o stereotipi sul fenomeno migratorio si possono sfatare attraverso il suo lavoro?


“Mi piacerebbe che il libro contribuisse a far vedere le persone e le loro storie, prima delle etichette che portano o dei problemi che hanno. C’è un certo grado di attenzione pubblica, con molte oscillazioni emotive, per gli sbarchi, ma poco o nulla su quello che succede dopo – l’inizio di una nuova vita che, purtroppo, non sembra troppo diversa da quella vecchia. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del “fenomeno migratorio” come entità a se stante: una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa dalla popolazione locale. Esistono, invece, percorsi e incroci di persone che, anche quando portano con sé paure, povertà e progetti di famiglie e comunità intere, hanno una loro soggettività. Ogni stanza del centro ospita una storia che non si sovrappone automaticamente con tutte le altre. Sono persone per lo più giovani che inseguono gli stessi sogni e modelli di tanti loro coetanei, con diritti, risorse e opportunità radicalmente inferiori.  


Qual è il ruolo della ricerca accademica nel contesto attuale delle politiche sull’immigrazione?  

“La ricerca scientifica ha sempre faticato ad avere voce nelle politiche sull’immigrazione, e oggi più che mai. Ci sono differenze di linguaggi, di culture (tutti i populisti del mondo diffidano degli intellettuali), di orizzonti temporali (la ricerca illusoria di soluzioni pronte per l’uso), per non parlare dell’incapacità di molti ricercatori nel farsi capire fuori dalla propria bolla. In questo come in tanti campi, le politiche pubbliche soffrono lo iato tra i tempi brevi del consenso, dei media e delle carriere politiche, e i tempi lunghi di qualsiasi investimento in una società migliore. Trovare luoghi e canali di comunicazione rilevanti per tutti, che scardinino la divisione ideologica e insensata tra “favorevoli” o “contrari” all’immigrazione a partire da vissuti comuni, può contribuire a indebolire la barriera tra accademia e politica. Non per dare raccomandazioni, ma per invogliare a guardare le cose fuori dai quadri mentali in cui ci adagiamo abitualmente”.

Come pensa che la società e le istituzioni potrebbero migliorare l’equità e l’inclusione per le comunità migranti?


“I percorsi di accoglienza sono incerti e complessi per definizione. Per definizione, però, la protezione internazionale non è una gentile concessione umanitaria, ma un diritto. Lo sviluppo delle politiche degli ultimi anni, nazionali e locali, l’ha ridotta all’osso, come in una profezia che si autoavvera. Si dice che gli immigrati sono incapaci di integrarsi, dopo che si sono create tutte le condizioni perché l’integrazione fallisca. La realtà, nel centro di Vite ferme e in tanti altri posti simili, è diversa. Nonostante la marginalità, la sofferenza e la povertà, chi ce l’ha fatta fino a qui è resiliente, volitivo, capace di sacrificarsi per tendere a una vita normale – non così penalizzata dall’angolo della terra in cui è nato. Ci sono criticità importanti, nell’accesso al mercato abitativo e del lavoro oltre che ai servizi, che hanno bisogno di tempo e di amministrazioni pubbliche più illuminate, nell’interesse di tutti. E c’è, dentro e fuori le istituzioni, la vita reale di chi tesse relazioni, accompagna, insegna, rivendica. E’ dalle iniziative dal basso, e dalla capacità di partecipare agli spazi pubblici in forme di sociabilità inclusiva, che ci possiamo aspettare di più in questi anni. Difficile avere grandi aspettative verso le politiche pubbliche, fino a che il vento del nativismo (con tutte le crisi che lo nutrono) continuerà a soffiare così forte”.