Israele alimenta l’antisemitismo con l’arroganza.

gazaIsraele è diventata una macchina che produce antisemitismo: per trovare la pace, israeliani e palestinesi dovrebbero fare dei passi dolorosi, ma necessari. Bisognerebbe guardare all’esperienza del Sud Africa, dove dalla reciproca paura si è passati alla convivenza, e smetterla di «piangersi addosso».
A sostenerlo è un ebreo, Marco Ramazzotti Stockel: il suo secondo cognome, ebraico, è tra quelli ricordati nel museo dell’Olocausto a Gerusalemme. La sua famiglia è stata in gran parte annientata nella Shoah. Eppure oggi egli chiede ad Israele di uscire dalla paura e dalla violenza verso i palestinesi, proprio perché è l’unica strada per non alimentare l’antisemitismo. Ramazzotti verrà a spiegare la sua scomoda posizione in una serata organizzata dall’associazione «Cortili di Pace», dal titolo «Gaza: una polveriera sempre accesa. Azioni di guerra, azioni di pace, diritti umani, voto Onu» che si terrà oggi alle ore 20.30 presso il Teatro delle Garberie a Pergine. Interverranno Erica Mondini, dell’associazione «Pace per Gerusalemme» e Chantal Antonizzi, di Amnesty International. Ramazzotti, che di mestiere fa il consulente internazionale per lo sviluppo e le emergenze, è stato l’unico volontario italiano a bordo della nave Estelle che lo scorso ottobre è stata abbordata da militari israeliani mentre tentava di raggiungere Gaza.

Ramazzotti, come vede il presente e il futuro dopo l’ultima tregua a Gaza?

«C’è una totale incapacità israeliana di convivere con i palestinesi nonostante questo sia stato possibile in passato. Ogni tentativo di negoziazione viene ostacolato. È chiaro però che la società israeliana non è un blocco unico con una sola posizione. Ci sono varie sfaccettature. È dal profondo del cuore, da ebreo vissuto a stretto contatto con il mondo arabo, che chiedo alcuni passi dolorosi ma necessari per arrivare alla convivenza».
Stanno cambiando gli assetti internazionali e Israele rischia
l’isolamento. «Gli Usa non sono più interessati all’area del Mediterraneo. Non c’è più l’Urss da tenere a bada e anche gli interessi sul petrolio si stanno spostando. Con la crisi economica le sovvenzioni Usa ad Israele potrebbero terminare. E poi il governo israeliano continua a pensare di voler attaccare l’Iran, nonostante tutti gli esperti militari dicano che si tratta di una follia che scatenerebbe una catastrofe. Gli stessi militari israeliani sono contrari a questa ipotesi del governo di Netanyahu. L’antisemitismo si genera soprattutto con queste politiche violente. Nessuno, oggi, giudica gli ebrei per il loro “naso adunco”. È quel che subiscono i palestinesi ad essere intollerabile».

Quanto è laica oggi la società israeliana e che ruolo ha avuto il sionismo nella sua evoluzione?
«I religiosi ultraortodossi, oggi, sono uno dei freni maggiori alla laicità dello stato israeliano che in realtà si sta trasformando in qualcosa che lo stesso sionismo non voleva all’origine: una realtà fondamentalista, dove la religione diventa il maggior punto di riferimento».
Criticare Israele per un ebreo non è facile.
«Attualmente non posso entrare in Israele. Il governo non mi vuole. Ma se proclamo il mio dissenso non è perché abbia dimenticato la Shoah. Solo ho vissuto con gli arabi e ho sperimentato che non bisogna averne paura. Non saranno loro ad avviare un nuovo sterminio di massa degli ebrei. Guardiamo a cosa è successo in Sud Africa: i bianchi erano terrorizzati all’idea che i neri potessero prendere il potere. Poi però, grazie anche ad
una figura politica straordinaria come Nelson Mandela, quel che sembrava impensabile è diventato realtà”
Articolo pubblicato su “L’Adige”, 14 dicembre 2012, pag. 12

Non esiste un Dio di guerra


E’ il volto dell’altro, il guardare in faccia “il nemico” e le “vittime della guerra” a darci la possibilità di scegliere la pace, la non violenza. Liberandoci dalle strumentalizzazioni di Dio, dalle guerre “benedette” e dagli immorali cacciabombardieri F35. Lo sostiene don Renato Sacco, di Pax Christi. Assieme a don Albino Bizzotto, fondatore di “Beati i costruttori di pace”, entrambi partecipanti e promotori della marcia di Sarajevo del 1992 (dove un gruppo di pacifisti “osò” entrare in un scenario di guerra per difendere la popolazione civile, senza le armi) saranno domenica 14 ottobre alle ore 17.30 (Teatro San Marco,) all’evento speciale del Filmfestival “Religion Today”: “In marcia. Pacifismo e (non) violenza nei Balcani, in collaborazione con la Fondazione Alexander Langer Stiftung. Durante l’incontro verranno proiettate interviste e clip dal documentario di Adriano Sofri: “Il giorno in cui il Papa non andò a Sarajevo”. Renato Sacco è oggi in “prima linea” per fermare il progetto di acquisto dei nuovi cacciabombardieri F35: gli abbiamo chiesto cosa dobbiamo intendere, concretamente, con il termine “pacifismo” per non rischiare che sia solo una parola, una utopia?
Pacifismo è dare un volto alle persone. Quando andammo nel ‘92 a Sarajevo fu perché la guerra aveva un volto, quello di chi viveva nell’assedio della città. Abbiamo condiviso, pianto con loro: quando si vedono le persone in volto ci si rende conto di cosa sia la guerra. Altrimenti resta teoria. La guerra oggi non fa vedere le persone che scappano, soffrono, muoiono. La pace significa dunque dare dignità alle persone, cercare armonia nei rapporti. Il rischio è appunto che la pace sia vissuta come un concetto “fra le nuvole”: è molto più facile giustificare la guerra. Perché ci sono i terroristi, gli integralisti: i motivi per un conflitto si trovano comunque.
Per un credente cosa c’è “di più” nella parola pace?
“Significa la pienezza di un incontro con Dio. La pace è il dono più grande: “Cristo è la nostra pace”, dice San Paolo. Don Tonino Bello diceva: la pace è un prodotto “DOC”. Se Cristo è la nostra pace questa è “made in Cielo”. Noi pertanto siamo chiamati a vivere con scelte concrete questo dono e impegno”.
Con quali azioni?
“Nella mia zona, nel novarese, a Cameri, c’è in programma l’assemblaggio degli F35, questi nuovi cacciabombardieri supertecnologici, invisibili ai radar. In questi giorni, mentre si parla di venti di guerra in Siria, di tagli alla spesa pubblica, sapere che uno di questi aerei costa, allo Stato, 150 milioni di euro è scandaloso, immorale. L’impegno sicuro di spesa è di 15 miliardi di euro per un centinaio di F35. Come si fa a parlare di tagli alla sanità e alle pensioni e poi investire in strumenti di attacco di guerra, non certo per la difesa? Questo progetto lo possiamo ancora bloccare: richiamando tutti a guardare in volto le persone. Chi guida un aereo non vede: colpisce a chilometri di distanza. Non vede il sangue. Non sente le grida. La guerra non ha più l’aspetto della tragedia umana”.
Come si fa a togliere, dalle mani dei governi, del potere, la “scusa” della religione, come motivo per fare la guerra, per la violenza?
“Ribadendo che ogni religione è per la pace. Ogni fede ha un Dio di pace. Il problema è che Dio, essendo “pacifista”, non incenerisce sul momento chi lo strumentalizza! A Dio dunque si fa dire tutto quel che si vuole: sul cinturone delle SS c’era scritto “Gott mit uns”, Dio è con noi. Sul dollaro troviamo scritto “In God we trust”. Dobbiamo liberare Dio, ogni Dio, chiamato con nomi diversi, soprattutto quello cristiano, che muore in croce per non usare la violenza e il potere, da ogni forma di strumentalizzazione. Ogni volta che qualcuno usa la religione per i suoi interessi è una vera e propria bestemmia”.
Vent’anni da Sarajevo: perché quel tipo di esperienza non è stata ripetuta in altre situazioni di guerra?
“ Fu la prima volta che si affacciava una nuova guerra in Europa dopo il 45. La vedevamo a poche ore di macchina da casa nostra. Ancora oggi credo ci siano molte persone disposte a rifare quell’esperienza. Tende però a subentrare un senso di frustrazione quando la logica della guerra prevale. Ma se nella guerra “conta chi vince”, la pace non va misurata con gli effetti immediati di chi sgancia una bomba e gli sembra di aver eliminato un problema. Dobbiamo trovare altre modalità: denunciare tutte le violazioni dei diritti umani. A Sarajevo abbiamo visto le bombe lanciate contro la popolazione con il marchio “made in Italy”. Non è mai successo che vengano prodotte delle armi e poi non le si usi. Chi produce armi costruisce degli strumenti di morte. Infine: come si possono creare condizioni più umane per i tanti rifugiati che arrivano anche nel nostro paese? Smettendo di vendere armi ai dittatori dei loro paesi”.

Articolo pubblicato su “L’Adige” del 13 ottobre 2012

Vaticano II cinquant’anni dopo: “Considerare il superfluo con la misura della necessità altrui”

Dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l’amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti”.

Nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962 Giovanni XXIII annunciava l’imminente Concilio Vaticano II. Di li all’11 ottobre, sarebbero arrivati a Roma, per l’apertura dei lavori, 2500 cardinali, patriarchi e vescovi cattolici da tutto il mondo. Con quelle parole dava uno degli indirizzi centrali  del percorso che la Chiesa avrebbe dovuto compiere per un reale “aggiornamento” e un ritorno alle radici del cristianesimo: la vicinanza ai poveri, agli ultimi, l’annuncio del Vangelo e della liberazione per gli uomini. Lo ricorda monsignor Loris Francesco Capovilla, padovano, allora segretario del “Papa buono”, oggi arcivescovo di Mesembria, 97 anni, memoria viva e mente lucida sulle prospettive che Papa Roncalli aveva impresso, con la sua profetica indizione del Concilio ecumenico, al corso della storia della Chiesa contemporanea.  Per il cinquantesimo anniversario abbiamo chiesto a Capovilla di ripercorrerne alcune tappe. Le origini: ci fu  una fase preparatoria, durata quasi quattro anni, in cui venne richiesto a tutti i vescovi, i Dicasteri romani, gli Istituti Superiori di Cultura, agli ordini religiosi, di riflettere sulla Chiesa e la società di allora per  elencare quali fossero gli argomenti da affrontare.
Fu una idea dallo stesso Giovanni XXIII o le modalità “democratiche” con cui venne preparato il Vaticano II hanno origini diverse?
Nella mens di Giovanni XXIII fu modalità di collegialità apostolica ispirata dal primo (sia pur informale) Concilio di Gerusalemme, anno 50 dell’era cristiana.
È assai arduo rendersi conto del lavoro preparatorio del Concilio, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue esuberanze e le sue lacune, senza tener conto che Papa Giovanni aveva trascorso tutta l’esistenza tra il servizio pastorale e la familiarità con gli ordinamenti ecclesiastici, le pazienti ricerche, le imprevedibili scoperte. Senza lo studio della “Visita Apostolica” di San Carlo e senza la lunga permanenza in Oriente, Papa Giovanni non avrebbe avuto dimestichezza con la storia dei Concili ecumenici, i primi otto in particolare, i cinque lateranensi e il tridentino; e non avrebbe potuto offrirci, traendoli non da interminabili citazioni, ma dalla semplicità evangelica e ispirata del suo animo, quei due discorsi dell’11 settembre 1962: Ecclesia Christi Lumen gentium e dell’11 ottobre: Gaudet Mater Ecclesia, che  racchiudono la tematica ecclesiale del nostro tempo, danno inizio a metodologia nuova di studio e di rapporti, evidenziano le necessità dei credenti, stabiliscono la strada da percorrere.
Quel giorno non i prìncipi cristiani né alcuna potestà politica proteggevano il Papa, né erano richiesti di alcun atto di sudditanza o di obbedienza, né si parlò di estirpare alcuna eresia, né di soffocare gli scismi, ma di pace si parlò e di santificazione.

La società civile, i laici, in genere accolsero  con fiducia il Concilio e i suoi “messaggi di rinnovamento”: alcune riserve furono più diffuse tra il clero? Quali furono le preoccupazioni di Papa Giovanni in merito alle reazioni in ambito ecclesiastico?
“Siamo schietti: l’’avvicinarsi del Concilio rivelò al Papa e ai Padri, e all’opinione pubblica, impreviste difficoltà, irritate incomprensioni, attese e pretese insostenibili, scogli procedurali, forzature di entusiasti innovatori, frenature di vigili pastori del gregge, astuti calcoli di occulti manovratori, artificiosi commenti dei poteri mediatici.
L’11 settembre 1962 Giovanni XXIII alla Chiesa cattolica, ai cristiani, ai credenti parlò con scontata e convincente lealtà. Volle che, liberato il terreno da ingombrante zavorra, fosse palese la finalità religiosa dell’evento annunciato. Riguardata nei rapporti della sua vitalità ad extra, cioè la Chiesa di fronte alle esigenze e ai bisogni dei popoli, quali le vicende umane li vengono volgendo piuttosto verso l’apprezzamento e il godimento dei beni della terra, sente di dover far onore alle sue responsabilità, e convincere gli uomini a passare attraverso le vicende del tempo senza perdere di vista i beni eterni. Il Papa stese davanti agli ascoltatori il vasto arazzo che illustra sul fondamento del Decalogo e del Vangelo, il cammino e le stazioni dell’umanità secondo il disegno di Dio: la famiglia e il lavoro, la comunità e la pace; preoccupato di ricordare i doveri impreteribili dell’appartenenza alla famiglia umana: In faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. Ogni offesa e violazione del quinto e sesto precetto del Decalogo santo; il passar sopra agli impegni che conseguono dal settimo precetto: le miserie della vita sociale che gridano vendetta al cospetto di Dio: tutto deve essere chiaramente richiamato e deplorato. Dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l’amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti. (Radiomessaggio dell’11 settembre 1962, ndr).

Anche nella Gaudium et Spes, documento uscito dal Concilio,  ci sono  importanti affermazioni rispetto all’ attenzione che la Chiesa deve porre alle situazioni di povertà e ingiustizia nel mondo. Oggi che il comunismo è una ideologia “del passato”, che non dovrebbe più “preoccupare” la Chiesa, si possono riprendere quelle indicazioni del Concilio per un maggiore impegno della comunità ecclesiale a stare, come Gesù Cristo, dalla parte dei poveri?  

Il messaggio giovanneo dell’11 settembre 1962 è stato un convincente invito a riflettere sul superfluo; a rimeditare la dottrina dei carismi: “A ciascuno è data una manifestazione particolare per l’utilità comune” (1 Cor 12, 7).

Quest’accorato invito a meditare sul superfluo (o meglio: su quello che c’è dentro il piatto, dentro la borsa!); ad individuare i tribolati della terra, coloro che, non per fatalità, ma talora per rapina o inadeguata amministrazione, agonizzano nella condizione di sottosviluppo, compendia il poema delle Opere della misericordia, preannuncia l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI e le ulteriori dilatazioni del ministero pro iustitia et pace del pontificato wojtyliano, sino al grido di dolore radiodiffuso dall’aeroporto di Cracovia. “La Chiesa ha sempre ricordato che non si può costruire un futuro felice della società sulla povertà, sull’ingiustizia, sulla sofferenza di un fratello. Gli uomini che si muovono nello spirito dell’etica sociale cattolica non possono restare indifferenti di fronte alle sorti di coloro che rimangono senza lavoro, vivono in uno stato di crescente povertà senza alcuna prospettiva di miglioramento della propria situazione e del futuro dei loro figli”(L’Osservatore Romano, 17 / 18 agosto 2002, p. 5, ndr).

 

Uno dei temi principali di Giovanni XXII fu “l’aggiornamento”: come giudica a cinqunat’anni di distanza i risultati del Concilio?

Toccando il tema dell’aggiornamento, con invito esplicito a confidare senza ansia o angoscia, a lavorare senza stanchezze e abbandoni, a ricominciare all’occorrenza sempre da capo, ma senza nutrire illusorie aspettative di una qualche palingenesi definitiva, Papa Giovanni asserì inequivocabilmente: “Dobbiamo respingere le facili illusioni, giacché, quando fosse attuato l’ideale completo, sarebbe veramente l’ora beata di chiudere tutte le nostre porte e case, ed avviarci, in coro osannante, al Paradiso” (DMC, III, p.575). Il nostro viaggio attraverso i deserti del mondo: solitudine, paura, presunzione, non era finito; ma soltanto confortato da rinnovato coraggio, fede rinvigorita, più luminosa speranza, onnipervadente carità. Il pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio potevano considerarsi, e di fatto non erano, né un punto di arrivo, né di partenza, ma, alla lettera, di transito, pur non essendo lui, in senso limitativo, quel “papa di transizione”, che alcuni si erano affrettati a diagnosticare; divenendolo, invece per davvero, nel senso più inaspettato e misterioso, di passaggio della Chiesa da un’era all’altra e dell’umanità da un modo di rapporti ad un altro. Si iniziava col concilio, pur volutamente non inteso come solenne assise specificamente finalizzata alla risoluzione della millenaria crisi di unità, il processo di ricomposizione dell’unità dei cristiani, premessa e contributo alla riunificazione stessa delle membra dilacerate dell’umanità intera in un unico impegno di solidarietà e di corresponsabilità. Vorrei concludere con le parole della “Pacem in Terris”: “In questo nostro mondo ogni credente deve essere una scintilla di luce, un focolare di amore, un centro vivificatore nella massa; e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio”.

 

Articolo apparso su “L’Adige” del 6 ottobre 2012.

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La resistenza oggi si fa con i libri: Mempo Giardinelli

L’Argentina, antesignana, delle nazioni colpite dalla crisi finanziaria ha rialzato la testa investendo nell’istruzione dei giovani, puntando sulla cultura. Secondo Mempo Giardinelli, noto scrittore argentino di origini italiane  la «resistenza» alla crisi si fa leggendo e insegnando a leggere. E’ stato ad Arco il 29 settembre 2012, invitato dal “Centro per la pace” di Bolzano, per parlare di giovani e futuro.

Recentemente lei ha ricevuto a Londra il prestigioso premio «Ibby Ashai» per la promozione della lettura fra i ragazzi più svantaggiati delle città argentine. Può spiegarci di cosa si tratta?
«Quando c’è stata la grande crisi del 2001 in Argentina, è nato un forte movimento di solidarietà perché il panorama sociale era desolante – ci ha risposto lo scrittore che ha resistito alla dittatura militare degli anni ‘70 – noi, dalla nostra Fondazione, eravamo parte di questi sforzi. Cerchiamo di dare una risposta attraverso la nostra
attività specifica: la promozione della lettura. Il programma è stato
ulteriormente sviluppato con lo “Storytelling nonne”. Molte nonne
ci hanno riferito che alcuni ragazzi si addormentavano durante la
lettura: la verità era che dormivano perché affamati. A quel punto
abbiamo, nel 2002, iniziato con le cucine del “programma minestra di assistenza”. L’obiettivo: ottenere cibo per le scuole dei settori sociali marginali. In tutti questi anni abbiamo gestito e distribuito più di 30 tonnellate di cibo di alta qualità, e materiale scolastico,
abbigliamento e calzature».

Più volte lei ha spiegato che ritiene il leggere una «forma di
resistenza». Oggi la comunicazione sembra sempre più avviata ad una essenzialità e povertà da sms. La gente è disabituata a scrivere e
legge sempre meno. Cosa stiamo perdendo con questa nuova«sottocultura tecnologica»?
«Lo ribadisco: la lettura è una forma di resistenza culturale alle proposte della frivola e mortificante televisione. A metà degli anni ‘90 ho iniziato a pensare che dovevamo resistere all’atteggiamento passivo dello Stato e all’avanzamento delle politiche antisociali. Molto è cambiato in Argentina, anche se abbiamo ancora un lungo cammino. Negli ultimi dieci anni in Argentina c’è stato un cambiamento fondamentale nella cura dei bambini e dei giovani. Ma adesso c’è da tenere sott’occhio le resistenze dei settori più reazionari, che non accettano i cambiamenti sociali in atto. E tutto questo non significa che dobbiamo “resistere” a qualsiasi tecnologia. Ciò che dobbiamo fare è adattare le tecnologie alle esigenze attuali, e renderle disponibili per tutti, non solo a pochi».

Oggi in Italia si «taglia» sulla cultura, sulla scuola, con la «scusa»della crisi economica. Come giudica questo tipo di scelte?«Il taglio della spesa per l’istruzione è una misura tipica del neoliberismo, che favorisce solo le imprese e le banche. Si tratta di un dibattito fondamentale in cui è necessario ribadire che non vi è alcun reale risparmio tagliando in materia di istruzione o sviluppo culturale. Al contrario, per contrastare la crisi è necessario investire sempre di più nelle scuole e nelle università. Questo è ciò che è stato fatto nel mio paese: espandere il budget per l’istruzione, aprire più università, investire nella scienza e nella tecnologia come mai prima. E i risultati completi devono ancora arrivare».

Mempo Giardinelli è nato a Resistencia
nel 1947; scrittore e giornalista, ha origini
abruzzesi. In esilio in Messico durante
la dittatura militare in Argentina (1976-
’84), rientrò in patria col governo
di Raúl Alfonsín. Nel 1986 ha fondato
la rivista letteraria «Puro Cuento».

Articolo apparso su “L’Adige” del 29 settembre 2012

 

 

Siria in fiamme: il gioco sporco di tutte le parti.

Siria: 17.000 le vittime accertate. Un massacro: di fronte ai morti e
alla guerra però occorre non prendere posizioni “manichee” e pensare
che “buoni e cattivi” siano bene identificabili. Sopratutto non si
deve cedere a semplificazioni che vorrebbero in Sira una delle “tante”
primavere arabe” dove un popolo oppresso lotta contro un dittatore
“cattivo”. E’ quanto sostengono, con punti di vista diversi, Stefano
Vernole, redattore di “Eurasia” e Mario Villani, commentatore di
vicende mediorientali e testimone diretto dell’attuale situazione.
Saranno entrambi a Volano il prossimo Venerdì 21 settembre alle ore
20.30 presso l’Aula magna delle scuole elementari (Via Raffaelli)
invitati dalla Associazione “La Torre” per parlare di cosa stia
realmente accadendo in Siria oggi.
“In questo momento in Siria le forze fedeli al Presidente Bashar Al
Assad sembrano avere la meglio nei confronti dei ribelli dell’Esercito
Libero Siriano (ELS) – ci ha detto Vernole – ma non è certo facile fare previsioni su quanto
accadrà nell’immediato futuro. Dal mio punto di vista è probabile che
si assisterà ad un’accelerazione della guerra durante il passaggio dei
poteri presidenziali negli Stati Uniti (a prescindere dalla vittoria
di Obama), per tentare di raggiungere l’obiettivo finale del conflitto
scatenato da oltre un anno contro il Governo di Damasco, cioé l’Iran,
principale alleato della Siria nella regione. I precedenti tentativi
di giungere alla pace si sono risolti in un nulla di fatto, a causa
dell’ostilità di alcuni paesi che preferiscono mantenere una
situazione di ostilità e la Siria destabilizzata. Se davvero si fosse
voluto raggiungere un accordo si sarebbe partiti dalle medesime
considerazioni espresse sia dalla missione della Lega Araba sia dagli
osservatori delle Nazioni Unite guidati da Kofi Annan, per i quali
“gran parte delle violenze sono riconducibili a entità armate e gruppi
di opposizione armati coinvolti nell’uccisione di civili”. Per questa
ragione entrambe le missioni sono state sospese e dubito che l’attuale
tentativo diplomatico, guidato da Lakhdar Brahimi (uomo storicamente
vicino ai sauditi) avrà miglior fortuna; come ha ribadito lo stesso
Papa Ratzinger durante la sua recente visita a Beirut, bisogna
impedire l’afflusso di armi in Siria, ma gli sponsor occidentali,
sionisti e islamici dei ribelli siriani non ne hanno la minima
intenzione … Le cifre delle vittime sono difficili da quantificare,
può essere che quella di 17.000 si avvicini alla realtà ma tenendo ben
presente cosa sta davvero accadendo. Non si può prendere ad esempio il
rapporto all’ONU sui diritti umani stabilito da Karen Kining Abu Zaid,
che attribuisce le uccisioni esclusivamente all’esercito di Assad, in
quanto si tratta della visione della direttrice del Middle East Policy
Council,finanziato da Exxon e da altre multinazionali statunitensi.
Teniamo presente che solo nel periodo compreso tra il 17 febbraio e il
12 luglio 2012 sono stati rapiti o sono scomparsi 1.975 soldati o
appartenenti alle Forze dell’Ordine del Governo di Damasco, cifre che
non comprendono coloro che sono stati liberati dalle autorità
competenti o i cui corpi sono stati ritrovati dopo essere stati uccisi
dai gruppi terroristici armati anti-Assad.

Quanto pesa la questione “religiosa” e quanto invece sono forze esterne, dinamiche internazionali, a non permettere una soluzione pacifica?

Credo che, così come accaduto per altre crisi scoppiate in passato
(Jugoslavia, Libia ecc.) le dinamiche internazionali superino di gran
lunga quelle interne, che tuttavia esistono. Prolungandosi per oltre
un anno i combattimenti, le tensioni tra le varie comunità si sono
effettivamente esacerbate e rischiano sempre più di degenerare in una
sorta di guerra civile tra le differenti comunità etniche e religiose,
così come accaduto in passato in Libano e oggi in Iraq. Questo è il
frutto più avvelenato della guerra voluta essenzialmente da alcuni
paesi occidentali, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, in accordo
con altre nazioni dell’area, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele.
Con la scusa di voler proseguire il ciclo delle “rivolte arabe”,
questo gruppo di paesi chiede ad Assad di farsi da parte, quando per
oltre due anni il Presidente alawita è stato corteggiato ed
incoraggiato a riconoscere Israele e a rompere le relazioni
privilegiate che la Siria baathista intrattiene con Hezbollah in
Libano e con l’Iran … Se Assad avesse acconsentito ad esaudire le
richieste di Hilary Clinton e quelle di Ankara, che chiedeva
l’ingresso di 3-4 Ministri appartenenti alla fazione dei Fratelli
Musulmani nel Governo, l’azione di destabilizzazione sarebbe già stata
interrotta. Allo stesso tempo ormai la crisi siriana si è talmente
internazionalizzata che non potrà avere fine senza che prima si arrivi
ad una prova di forza (diplomatica o meno) tra le potenze eurasiatiche
guidate da Russia e Cina (le quali avanzano la tesi di un mondo
multipolare) e gli Stati Uniti d’America (che pretendono di guidare il
pianeta secondo i loro principi). Quanto pericolosa sia l’attuale
situazione di tensione per la pace mondiale è ormai evidente a tutti.

La Siria era un paese, (almeno così risulta dal racconto di padre Paolo Dall’Oglio, missionario gesuita cacciato dalla Siria, che è stato recentemente in Trentino), un luogo dove vivevano abbastanza pacificamente cristiani e mussulmani. Crede che si possa tornare indietro?

Effettivamente, anche in base alla mia esperienza personale, la
Siria è sempre stata una nazione nella quale convivevano pacificamente
le diverse componenti religiose presenti nel paese e questa è una
delle ragioni per le quali tutte le minoranze (dai cristiani ai curdi)
nell’attuale crisi si sono schierate nella loro quasi totalità dalla
parte del Governo di Assad. Una delle ragioni dell’aggressione esterna
subita da Damasco risiede proprio nella visione strategica del suo
Presidente, che il 1 agosto 2009 proclamò solennemente: “Una volta che
lo spazio economico tra Siria, Turchia, Iraq e Iran sarà integrato,
potremo collegare Mediterraneo, Mar Nero, Caspio e Golfo Persico, non
saremo importanti solo nel Medio Oriente ma diventeremo un passaggio
obbligatorio nel mondo per gli investimenti, i trasporti e altro
ancora”. Il 26 luglio 2011, in effetti, Iran, Siria ed Iraq firmarono
un importante accordo denominato “Gasdotto islamico”, della lunghezza
di circa 6.000 km, per trasferire 120 milioni di metri cubi di gas
naturale dal South Pars (il più grande giacimento del mondo che si
trova in Iran) all’Europa passando dal Libano e dalla Grecia. Come si
può notare rispetto alle intenzioni proclamate da Assad nel 2009
nell’accordo manca la Turchia … che ha preferito schierarsi dalla
parte dei paesi sunniti (gli Emirati petroliferi del Golfo) in quella
che le forze eterodosse wahabite e salafite finanziate da Riyad
intendono come un regolamento di conti nei confronti del mondi
islamico sciita. Ankara vede nella “primavera araba” evocata da Obama
la possibilità di assumere un ruolo di potenza regionale in Medio
Oriente, aggregando a sé tutte quelle forze che, come i Fratelli
Musulmani in Egitto e in Tunisia, cercano di coniugare l’Islam con il
libero mercato, i principi della “democrazia occidentale” e la non
ostilità ad Israele. Un calcolo che tuttavia, allontanando la Turchia
da Russia e Cina, rischia di trascinare nel baratro l’intero progetto
strategico intrapreso alcuni anni fa da Erdogan e dal suo Ministro
degli esteri Davutoglu, basato sulla dottrina geopolitica “zero
problemi con i vicini”. Questa tensione si riflette naturalmente anche
in Siria, dove la Fratellanza musulmana (sunnita) controlla buona
parte dell’opposizione ad Assad racchiusa nel Consiglio Nazionale
Siriano (CNS), una fazione politica strettamente allineata all’Arabia
Saudita, al Qatar e alla famiglia Hariri (che possiede anche il
passaporto saudita) in Libano.

’Italia a suo avviso può svolgere un qualche ruolo per risolvere questo momento drammatico per il popolo siriano?

L’Italia avrebbe sicuramente potuto svolgere un ruolo positivo per
contribuire a risolvere pacificamente la questione siriana se solo si
fosse allineata alle posizioni diplomatiche sostenute da Mosca, da
Pechino e da altri paesi del BRICS, anche in virtù degli stretti
legami economici e culturali che legano storicamente Roma a Damasco.
Invece l’Italia di Monti e di Terzi ha preferito ancora una volta
seguire pedissequamente le direttive atlantiste arrivate da
Washington, contribuendo addirittura all’addestramento dei ribelli
siriani in Turchia e pagando un duro prezzo in termini di bilancia
commerciale a causa delle sanzioni economiche comminate al Governo di
Damasco. Questo patetico allineamento, giustificato come al solito
dalle necessità “democratiche” e dalla propaganda massmediatica
portata avanti sia dai mezzi di comunicazione occidentali sia dalle tv
arabe “interessate” come Al Jazeera ed Al Arabiya, ignora volutamente
il massiccio sforzo riformistico intrapreso dal Governo di Assad già
dal 2011, per conferire tramite una riforma costituzionale maggiori
poteri al proprio popolo. La situazione di tensione bellica nel
Mediterraneo non potrà che aggravare anche la situazione sociale
dell’Italia, la cui credibilità internazionale è stata scossa
profondamente dalla crisi libica e dal tradimento operato nei
confronti di Gheddafi. I frutti di quel “capolavoro” diplomatico forse
sono oggi visibili alla maggior parte dell’opinione pubblica …

Dopo il veto di Russia e Cina dello scorso agosto, la comunità internazionale farà altri passi?

La soluzione alla crisi siriana non può che essere diplomatica,
pena il rischio dello scatenarsi di una Terza Guerra Mondiale. Ma
quali possono essere i paesi legittimati ad una nuova azione di
mediazione internazionale? Non certo quelli che addestrano
quotidianamente i “ribelli” o che destabilizzano da oltre un anno la
Siria con gli attentati confezionati dai propri servizi segreti. Mi
pare ovvio che solo un’azione diplomatica alternativa messa in campo
ad esempio dalle nazioni del BRICS possa sperare di ottenere risultati
positivi. Per fare questo occorre mettere fuori gioco tutte quelle
forze che si oppongono alla soluzione pacifica delle controversie in
Medio Oriente, il cui principale fattore di instabilità risiede
innanzitutto nella mancata risoluzione della questione palestinese. Un
nuovo processo di pace internazionale deve quindi collegare la crisi
siriana a quelle attualmente in corso in altri paesi, basti pensare
all’Iraq, dando spazio agli attori regionali effettivamente
interessati alla pace; questo necessita anche il riconoscimento
dell’Iran a detenere energia nucleare a fini civili.

Qual’è il ruolo di Israele in tuta la vicenda?

Il processo di “balcanizzazione” della Siria e, più in generale del
Medio Oriente, rappresenta da sempre uno degli obiettivi più
importanti perseguiti da Israele. La Siria di Bashar Al Assad è uno
dei maggiori avversari dello Stato sionista, molto di più della
retorica “islamista” dei Fratelli Musulmani o dei gruppi salafiti e
wahabiti, che dopo l’uccisione “provvidenziale” di Osama Bin Laden
sono stati mobilitati proprio in funzione anti-libica e anti-siriana.
Certo il ricorso alla manovalanza “islamista” finanziata dai Saud e
dall’Emiro del Qatar impone a Tel Aviv di mantenere un profilo “basso”
e di non esporsi eccessivamente, ottenendo in cambio di spaccare anche
il fronte palestinese che si trova ora senza lo storico sponsor
siriano. Sia il massacro di Gaza nel 2009, che quello operato a bordo
della Freedom Flottilla l’anno successivo, hanno consentito ad Ankara
e a Doha di elevarsi nel mondo arabo a paladini della causa
palestinese ma la loro opposizione ad Israele è stata solo una
finzione mediatica. Attualmente i “ribelli” siriani vengono
equipaggiati con armi provenienti dalla Libia tramite un ponte aereo
tra la capitale del Qatar (Doha) e la città di Antalya in Turchia, con
rifornimenti israeliani di missili anti-carro all’ELS. D’altronde dopo
la sconfitta subita contro Hizbollah nel 2006, Tel Aviv aspira alla
rivincita e teme notevolmente l’alleanza militare Siria-Iran-Libano
divenuta ufficiale nel febbraio 2010, uno schieramento al quale
potrebbe presto aggiungersi presto l’Iraq filosciita. Ecco perché
Israele è dovuto passare alla controffensiva, sia manipolando gli
avvenimenti libanesi (uccisione dell’ex premier Rafic Hariri) sia
sostenendo i gruppi militari che combattono contro Assad.

Ma la Siria per tradizione antica, era terra di “convivenza” tra
varie religioni. Cosa è cambiato? “Non si deve semplificare ed avere
un atteggiamento “manicheo” – ci ha risposto Villani, che ni Siria c’è stato recentemente – ho potuto
constatare di persona, parlando con la gente in Siria, che le persone
hanno più paura dei ribelli che del regime. Che certamente è
pesantemente burocratico e corrotto. Ma che fino a qualche tempo fa
aveva permesso la convivenza pacifica delle minoranze. Pensiamo
solamente che il ministro della difesa ucciso in un attentato, Dawoud
Rajiha era un cristiano ortodosso, anche se i cristiani rappresentano
solo il 10% della popolazione. Sullo sfondo della attuale situazione
c’è uno scontro tra islam sunnita e sciita. Ma gli sciiti nel governo
di Assad, sono della corrente alawita, non dei fondamentalisti, e
permettono la convivenza di più correnti reilgiose anche alla guida
del governo. Sono molto più “chiusi” i sunniti dell’Arabia Saudita
dove non è possibile nemmeno portare un crocefisso al collo”.

Versione integrale dell’articolo pubblicato su “L’Adige” del 21 settembre 2012.