La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

Siamo circondati da un’indifferenza mortale: per Luciano Violante il vero male del nostro tempo è l’incapacità di affrontare il senso profondo della vita e della morte. 

Giurista, ex presidente della Camera e della Commissione antimafia, Violante ha dato inizio alla edizione 2004 dell’Agosto degasperiano (organizzato dalla Fondazione De Gasperi e il cui tema generale quest’anno è “Amare il nostro tempo”), sabato 27 luglio, con un intervento su “La maschera della morte e la legge della vita”, che è il sottotitolo del suo ultimo saggio “Ma io ti ho sempre salvato” (Bollati Boringhieri, 2024) dove scrive: “Non ci confrontiamo sul senso della morte perché non ci confrontiamo sul senso della vita”. 

Gli abbiamo chiesto quali cambiamenti sociali o culturali crede siano necessari per ricominciare ad affrontare il senso della vita e della sua “sacralità”?

“Sento molto parlare di dignità della morte, ma non di dignità della vita. C’è qualcosa di contorto nel nostro pensiero sulla contemporaneità. Dove di fatto siamo circondati dalla morte: ci sono circa cinquanta guerre in corso. Migliaia di persone migranti che muoiono in mare, nei deserti, per raggiungere un futuro migliore. Ma tutte queste morti le consideriamo “normali”: a volte si usa lo stesso termine, sui media, tanto per definire l’abbattimento di un edificio quanto per l’omicidio di una persona. In sostanza c’è una indifferenza nei confronti della morte da analizzare con attenzione e preoccupazione”. 

In che modo, come si vince l’indifferenza? 

“Bisogna andare ai fondamentali: la vita e la morte. Non la pace e la guerra che riguardano i “grandi decisori”. Vita e morte riguardano le persone. Bisogna fare una battaglia per la vita per poter mettere fine alle guerre. Mi colpisce molto lo slogan delle donne iraniane: donna, vita, libertà. Occorre dunque occuparsi di “bio-politiche”, di politiche per la vita. Bisognerebbe mettere assieme politiche dell’infanzia, della famiglia, della salute e del lavoro. Considerandole in maniera integrata, non separatamente. Tutto il contrario di quel che accade oggi in Italia: garantire una vita dignitosa è compito di ogni governo”. 

Quali insegnamenti possiamo trarre dalla tradizione classica e biblica per recuperare il senso della dignità della vita? 

“Sono un credente senza religione: ma se la lotta tra il bene e il male fosse già decisa a favore del bene che senso avrebbe la vita? Tutto sarebbe già prestabilito e orientato al bene. In realtà così non è: più volte nei Vangeli viene citata la presenza del satàn, in ebraico “l’accusatore”. Nell’ultima cena Gesù dice ai suoi che se ne andrà, ma il male resta con voi. E il senso della vita è proprio la lotta contro il male. Se si può dire: dobbiamo dare una mano a Dio. Come lui ha chiesto nell’Alleanza: possiamo costruire qualcosa assieme. Questo è il vero senso della vita. Dovremmo rifletterci di più ed essere coerenti”

Non rischiamo con questo una polarizzazione: credersi sempre dalla parte del bene non equivale alla radice di molti mali? 

“Condivido pienamente. Ma non penso ci si debba credere sempre dalla parte del bene: dico che è in atto uno scontro tra bene e male. Il bene è tra noi come il male. Il senso della vita è questa lotta per far vincere il bene. Non che esista  un bene assoluto da seguire ciecamente: non sono un seguace di Trump!”. 

Da poco è mancata sua moglie, Giulia De Marco: di fronte alla morte delle persone care se non si ha una fede religiosa, non si crede nell’immortalità dell’anima, come si può  restare razionali ed accettare la “fine” di chi si ama? 

“Credo in un’idea laica di sacralità: ciò che non è ripetibile ed è un valore, come la vita e la morte, è sacro anche per un laico. Intangibile e non manipolabile. Vita e morte non sono ripetibili, sono uniche. Dati essenziali della vita di una persona. Di qui una laica sacralità di questi momenti. Ne consegue un profondo rispetto della vita e della morte. Di fatto nella frenesia del nostro tempo la morte “interferisce sgarbatamente”: quando sentiamo che è morto qualcuno il fatto ci distoglie dalle nostre faccende quotidiane. Più di una volta mi è capitato di vedere mancanza di rispetto nei confronti della morte. In un passato anche recente la morte era qualcosa di importante su cui soffermarsi: un fatto sociale. Un riconoscimento della persona e della sua storia, dei suoi rapporti. Adesso la morte significa, quasi sempre, solitudine. 

Come ex magistrato e politico, come ha influenzato la sua percezione della morte il suo lavoro nella lotta contro la mafia, un contesto in cui la vita e la morte sono spesso in stretta vicinanza?

“Mi è capitato, per fortuna mia e adeguatezza degli altri, di essere vivo. Nonostante i vari tentativi per fermarmi. Quando si fa un lavoro in cui si crede, non si pensa da altro. Importante che chi ti è caro sappia che può accadere”. 

Parlando di amore del nostro tempo, tema dell’ Agosto degasperiano, quale aspetto del nostro tempo ritiene più amabile e utilizzabile nella costruzione di una società più giusta e umana? 

“Il nostro è il tempo della scoperta, della ricerca e delle novità: questo è l’aspetto che amo della nostra contemporaneità. Penso allo spazio, alla ricerca in medicina, alle innovazioni digitali. Vedo però una certa propensione al conflitto che non mi piace: la tendenza poi a risolvere i conflitti con le punizioni e le aggressioni. La guerra è tornata ad essere lo strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Le diplomazie non esistono più”. 

Alcide De Gasperi è stato figura centrale nella costruzione della democrazia italiana. Quali aspetti del suo pensiero politico ritiene più rilevanti e attuali per affrontare le sfide contemporanee?

“Sono diventato  un grande ammiratore di De Gasperi, dopo averlo studiato: in una situazione di grande difficoltà in cui il Vaticano, l’ambasciata americana e altri gli chiedevano di mettere al bando comunisti, socialisti e sindacati, lui si è sempre rifiutato di attuare misure liberticide. E’ stato un vero garante dei valori costituzionali. Unico errore è stata la legge del ‘53: il maggioritario ha sottratto voti a chi li aveva guadagnati e questo nella cultura dell’epoca non era accettabile. De Gasperi però, senza piantare bandiere, ha sempre difeso la laicità della Repubblica, nello scontro con Pio XII. La cosa importante di De Gasperi è che non voleva dividere il suo Paese: aveva a cuore unità e coesione, non la vittoria del suo partito. Si competeva per governare, non per vincere”. 

(Intervista pubblicata sul quotidiano L’Adige il 27 luglio 2024 link al PDF della pagina) .

Vite ferme e storie di migranti in attesa.

L’invisibilità non paga. I tagli sulla accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non solo sono modi  per non far integrare i migranti, ma sono anche antieconomici. E’ quanto emerge da uno studio sociologico, in forma di narrazione, scritto da Paolo Boccagni, professore ordinario di sociologia all’Università di Trento. “Vite ferme” (Feltrinelli)  è il titolo del saggio, nato dopo una lunga e paziente permanenza in una residenza per migranti. 

A Boccagni abbiamo chiesto quali sono state le sfide e le scoperte più significative durante questo processo

“Vite ferme nasce dal tempo che ho avuto il privilegio di trascorrere in un centro di accoglienza, da ospite di chi vi veniva ospitato. Grazie ai migranti e agli operatori ho potuto avvicinarmi all’esperienza della vita in attesa, in una “bolla” di protezione che risponde ai bisogni primari ma non all’esigenza di costruire nuovi progetti di vita, oltre l’incertezza del presente. Di cose ne ho scoperte parecchie. Una, forse non banale, è che sapevo poco delle storie e delle vite di queste persone. Ci sono ostilità, discriminazioni e pregiudizi, ma anche la fatica delle sofferenze vissute, delle aspettative disattese, della vita da rifare. C’è tanto tempo vuoto, potenzialmente a disposizione, e pochissima possibilità di controllarlo”. 


Quali raccomandazioni emergono dal suo lavoro per affrontare meglio le sfide dell’integrazione?

“Il libro non parla di immigrazione in senso stretto. E’ una raccolta di storie di vita di giovani uomini, per lo più neri e africani, che sono anche richiedenti asilo. Nasce dall’idea che mettere al centro l’umanità di ciascuno, e i contorni della vita quotidiana di tutti, possa ridurre qualche distanza e sgretolare qualche schema preconcetto. Vite ferme ha un taglio deliberatamente narrativo, più che “prescrittivo”. Chiunque lo legga, però, credo potrebbe arrivare alla stessa conclusione: i tagli sull’accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno e raccogliere qualche voto in più, ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza (e di relativa repressione), meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine. L’invisibilità non paga. Le persone migranti non se ne andranno soltanto perché si cerca di tenerle fuori dal quadro della vita collettiva. Al massimo staranno peggio di prima e contribuiranno, nel loro piccolo, a far crescere l’ansia, l’incertezza e il rancore di tanti, di tutti i colori di pelle”.

Quali miti o stereotipi sul fenomeno migratorio si possono sfatare attraverso il suo lavoro?


“Mi piacerebbe che il libro contribuisse a far vedere le persone e le loro storie, prima delle etichette che portano o dei problemi che hanno. C’è un certo grado di attenzione pubblica, con molte oscillazioni emotive, per gli sbarchi, ma poco o nulla su quello che succede dopo – l’inizio di una nuova vita che, purtroppo, non sembra troppo diversa da quella vecchia. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del “fenomeno migratorio” come entità a se stante: una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa dalla popolazione locale. Esistono, invece, percorsi e incroci di persone che, anche quando portano con sé paure, povertà e progetti di famiglie e comunità intere, hanno una loro soggettività. Ogni stanza del centro ospita una storia che non si sovrappone automaticamente con tutte le altre. Sono persone per lo più giovani che inseguono gli stessi sogni e modelli di tanti loro coetanei, con diritti, risorse e opportunità radicalmente inferiori.  


Qual è il ruolo della ricerca accademica nel contesto attuale delle politiche sull’immigrazione?  

“La ricerca scientifica ha sempre faticato ad avere voce nelle politiche sull’immigrazione, e oggi più che mai. Ci sono differenze di linguaggi, di culture (tutti i populisti del mondo diffidano degli intellettuali), di orizzonti temporali (la ricerca illusoria di soluzioni pronte per l’uso), per non parlare dell’incapacità di molti ricercatori nel farsi capire fuori dalla propria bolla. In questo come in tanti campi, le politiche pubbliche soffrono lo iato tra i tempi brevi del consenso, dei media e delle carriere politiche, e i tempi lunghi di qualsiasi investimento in una società migliore. Trovare luoghi e canali di comunicazione rilevanti per tutti, che scardinino la divisione ideologica e insensata tra “favorevoli” o “contrari” all’immigrazione a partire da vissuti comuni, può contribuire a indebolire la barriera tra accademia e politica. Non per dare raccomandazioni, ma per invogliare a guardare le cose fuori dai quadri mentali in cui ci adagiamo abitualmente”.

Come pensa che la società e le istituzioni potrebbero migliorare l’equità e l’inclusione per le comunità migranti?


“I percorsi di accoglienza sono incerti e complessi per definizione. Per definizione, però, la protezione internazionale non è una gentile concessione umanitaria, ma un diritto. Lo sviluppo delle politiche degli ultimi anni, nazionali e locali, l’ha ridotta all’osso, come in una profezia che si autoavvera. Si dice che gli immigrati sono incapaci di integrarsi, dopo che si sono create tutte le condizioni perché l’integrazione fallisca. La realtà, nel centro di Vite ferme e in tanti altri posti simili, è diversa. Nonostante la marginalità, la sofferenza e la povertà, chi ce l’ha fatta fino a qui è resiliente, volitivo, capace di sacrificarsi per tendere a una vita normale – non così penalizzata dall’angolo della terra in cui è nato. Ci sono criticità importanti, nell’accesso al mercato abitativo e del lavoro oltre che ai servizi, che hanno bisogno di tempo e di amministrazioni pubbliche più illuminate, nell’interesse di tutti. E c’è, dentro e fuori le istituzioni, la vita reale di chi tesse relazioni, accompagna, insegna, rivendica. E’ dalle iniziative dal basso, e dalla capacità di partecipare agli spazi pubblici in forme di sociabilità inclusiva, che ci possiamo aspettare di più in questi anni. Difficile avere grandi aspettative verso le politiche pubbliche, fino a che il vento del nativismo (con tutte le crisi che lo nutrono) continuerà a soffiare così forte”.  

Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Inquieti: adolescenti e adulti, un difficile rapporto.

Nel rapporto tra generazioni, tra adulti e adolescenti, non si può semplificare: non ci sono ricette facili per affrontare la complessità e le novità del modo in cui ragazze e ragazzi interpretano il loro corpo, gli ambienti virtuali, le relazioni e l’identità anche di genere. Ne ha parlato lo psichiatra, psicoterapeuta e docente universitario Gustavo Pietropolli Charmet a Vigolo Vattaro, domenica 20 agosto 2023 per l’Agosto degasperiano, organizzato dalla Fondazione trentina Alcide De Gasperi. In particolare, per lo psicoterapeuta, durante la pandemia gli adulti non sono riusciti a parlare con i giovani dei veri problemi e delle questioni cruciali come la morte. 

“Uno dei compiti della generazione degli adulti è di presentare ai cuccioli che si aprono alla vita, tutte le dimensioni della realtà – spiga Pietropolli Charmet – anche quelle della sconfitta, della perdita, della privazione, della malattia e infine della morte. L’attuale modello educativo degli adulti è orientato in una direzione completamente diversa: l’obiettivo sembra  occultare la dimensione della sconfitta, a favore della dimensione del trionfo, della vittoria, del successo e  della ricchezza. Una visione estremamente edulcorata di ciò che succede nella vita. Questo da un lato illude, crea aspettative, induce i ragazzi a tentare di aver successo e affermazione. Nella realtà però il riconoscimento della propria bellezza e unicità non è così facile da ottenere: emergono le dimensioni dell’insuccesso, della rabbia e rottura della relazione di fiducia nei confronti di chi aveva illuso, descrivendo la vita come una passeggiata, mentre in concreto, a cominciare dalle scuole superiori, la faccenda diventa parecchio difficile. 

L’esperienza del Covid ha quindi fatto emergere difficoltà già presenti? 

“La fragilità delle nuove generazioni è riconducibile ad una serie di fattori, ma sicuramente anche al fatto di essere esposti alla delusione rispetto ad aspettative di successo difficili da ottenere. Il periodo del Covid è stato esemplare: davvero gli adulti hanno taciuto ai giovani quanto grave fosse la situazione e come fossero minacciati i fondamenti stessi della nostra vita. Gli adulti attiravano l’attenzione sul rispetto delle regole, non assembramenti, distanza: tutte cose che ai ragazzi sono sembrate facili da rispettare ed hanno rispettato. Salvo poi fare i conti con l’atmosfera generale: quella della grande paura rispetto al futuro. Un attacco durissimo alle strutture portanti della vita dei ragazzi: con la scuola che traballava, incerta sul da farsi, chiusa o socchiusa. Una situazione in cui emergevano  difficoltà e fragilità  della nostra realtà sociale, contraddicendo la teoria di una vita facile e predisposta per il successo, felicità e riconoscimento della persona”. 

Quindi cosa è mancato da parte degli adulti? 

“Credo che la generazione degli adulti avrebbe dovuto farsi carico di una “educazione alla morte”, un allenamento all’esperienza dell’insuccesso e della frustrazione. Altrimenti quando viene messa in discussione la certezza del diritto ad avere successo arrivano le grandi delusioni e con esse le conclusioni estreme dei giovani: non vale la pena, è tutto un inganno, meglio il ritiro sociale”. 

Sostanzialmente la sua analisi di qualche tempo fa sul passaggio da un modello edipico dell’educazione, con l’opposizione alla figura autoritaria del padre, ad uno narcisistico in cui i giovani sono super amati e iper valutati dai genitori, viene totalmente confermato dall’esperienza del Covid? 

“E’ una questione centrale se vogliamo discutere della relazione tra le generazioni. Il principio di autorità è messo seriamente in discussione. Accade ad un livello generale nel nostro Paese, a cominciare dalle strutture politiche, ma poi nella famiglia e nella scuola. La figura paterna ne è pienamente coinvolta: il padre si ritrova a non svolgere più  la sua funzione: far rispettare le regole anche a suon di minacce e pratiche di castighi molto temibili. Questo abbandono di un ruolo paterno e il passaggio da una funzione autoritaria ad una accuditiva ha però molto migliorato le relazioni tra le generazioni. Solo fino a qualche tempo fa la relazione era caratterizzata da una contestazione accanita che coinvolgeva tutte le figure educative: quella del padre, del docente fino all’autorità dello Stato. La diminuzione dell’importanza della regola a favore dell’importanza della relazione e quindi la realizzazione di una pace conveniente sia in famiglia che a scuola, ha ridotto moltissimo il livello della contestazione. Dall’altra parte si è aperta la strada a una possibile contrattazione delle relazioni tra le due generazioni. Quel che accade tutt’oggi: i ragazzi stanno cercando degli adulti competenti, ma proprio a questo livello può esserci qualche difficoltà. Per gli adulti non è facile capire bene che vita fanno gli adolescenti, quali siano i loro problemi e come si possano da un lato aiutare e dall’altro indirizzare, proponendo loro soluzioni alternative a quelle a volte troppo complesse”. 

Quel che manca è anche una fiducia reciproca tra agenzie educative, scuola e famiglia? 

“Effettivamente dovrebbe esserci una alleanza tra scuola e famiglia incentrata su questa domanda: ma cosa sta succedendo tra i ragazzi, qual’è il significato dei loro comportamenti? Perché questa centralità del gruppo? Perché questa dipendenza dal gruppo degli amici e dei valori ideali che il gruppo trasmette attraverso internet? Questo credo sia un problema cruciale: chiederci a che punto siamo nella conoscenza, necessaria da parte degli adulti, per avere una maggiore possibilità di accogliere la richiesta di aiuto dei ragazzi di essere aiutati a crescere. Occorre qualcuno che sveli loro il segreto della conoscenza e quanta fatica si debba fare per realizzare la propria crescita personale. La difficoltà oggi è incentrata sulla incapacità  di capire bene il “senso delle novità”: il nuovo modo di amare, di intrattenere una relazione, quello di gestire i conflitti tra coetanei”. 

Nel suo ultimo saggio “Gioventù rubata” (Rizzoli) emerge il ruolo della rete e dei social: dal suo punto il mondo virtuale ha solo delle criticità?

“E’ un’altra difficoltà degli adulti: dare il giusto peso all’importanza, qualità e significatività affettiva delle relazioni di amicizia “virtuale”. Per loro non c’è differenza tra amicizia virtuale e quella che si realizza nell’ambito sociale. Quando ne parlano o raccontano eventi relazionali dell’uno e dell’altro tipo di amicizia si capisce che per loro non esiste differenza. Tanto più che spesso l’amicizia si trasforma in affetto e amore: il mondo virtuale è per i giovani una soluzione alle difficoltà della vita. Si trasferiscono, armi e bagagli, nella dimensione virtuale, dove tutto sembra più facile perché è possibile esercitare un maggiore controllo, si è meno esposti agli imprevisti”.

Da psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica, come giudica il fatto che attualmente Freud sembra dimenticato e prevale  la linea delle neuroscienze o del comportamentismo, dove si cercano presunte oggettività “scientifiche” con cui misurare e modellare i comportamenti umani? 

“Fa parte delle leggi del mercato: la  “merce psicoanalitica” è troppo costosa e non dà garanzia di successo, mentre il comportamentismo o altre scuole di pensiero forniscono dei consigli, delle indicazioni o addirittura  indicano le regole di comportamento più adeguate per realizzare i propri scopi nella vita. Quindi tutto diventa più breve rispetto alle lungaggini psicoanalitiche: tutto più facile. Senza eccessi di sofferenza e tormento dell’indagine profonda. L’obiettivo non è capire a fondo la situazione, ma realizzare i propri scopi attraverso la strada più breve e meno dolorosa, dove è necessaria meno consapevolezza e responsabilità. Indubbiamente c’è una perdita importante da un punto di vista culturale, anche se dal punto di vista della salute pubblica non è male che si ricordino i criteri di base: la dimensione psicologica e quella relazionale. 

Di fronte a casi di giovani anoressiche o di adolescenti che “si tagliano” però è difficile trovare dei rimedi con la psicologia comportamentista o cognitiva. 

“E’ difficile per qualsiasi disciplina ottenere dei risultati stabili in tempi brevi. Questo è dovuto alla serietà e al vero significato del digiuno, del ritiro sociale o del tagliarsi: si tratta di un rifiuto sostanziale della propria corporeità e il bisogno di avere accesso ad una nuova dimensione corporea. Fino al desiderio di cambiare identità di genere: optare per una identità diversa. Il mettere in discussione la base percepibile di una realtà sessuale complica moltissimo la relazione con gli adulti, costretti a cambiare il nome del proprio allievo o figlio che ha deciso di chiamarsi in modo diverso. Tutto ciò è collegabile ad uno dei fenomeni più importanti di questa generazione: la liberazione dei costumi sessuali e l’assoluta libertà di identificazione e del significato del linguaggio del corpo con i suoi desideri ed enigmi. La complessità di questi fenomeni costituisce per gli adulti una sfida ardua, che comporta anche decisioni in certi casi drammatiche. Su queste questioni anche il mondo psichiatrico e psicoterapeutico è in difficoltà nel decidere quale sia il significato profondo da dare a questi rifiuti e perplessità sulla corporeità e decisioni categoriche di adolescenti di 13 o 14 anni che sostengono assolutamente di essere un’altra persona, non quella che gli altri vedono. Importante non è più la sessualità ma la personalità. 

Concludendo l’adolescenza è una malattia oppure la vediamo così perché la nostra cultura e società ci impedisce di comprendere qualcosa? 

Il rischio è proprio questo: di fronte alla complessità della vita adolescenziale si ricorre a drastiche operazioni riduttive e si usa il modello psicopatologico per dare senso agli eventi in corso. Questo è uno dei tanti rischi che sta correndo la nostra società: a livello educativo il rischio cresce perché i ragazzi si basano molto sul giudizio degli adulti  che corre sottotraccia e arriva nelle profondità della psiche. Quindi se la società considera l’adolescente un “malatino” che guarirà crescendo, giudizio denigratorio e privo di qualsiasi efficacia, il risultato può essere molto deleterio.

(Articolo pubblicato su L’Adige del 17 agosto 2023)

Anno nuovo o una seconda vita? François Jullien

31/12/2020 … finisce questo annus horribilis e mi aspetto una seconda vita da quello nuovo? Calma, parliamone…

Di certo non dipende solo dagli eventi esterni, da coronavirus o altro, se la mia vita avrà una svolta. E certamente non esiste una cesura netta, non può esserci un semplice “prima e dopo” o, peggio ancora per la nostra intelligenza, sperare che si possa semplicemnte “tornare alla normalità”. Di che normalità stiamo parlando? Di quella che ci permetteva di pensare ad un potere infinito, senza limiti, in cui il nostro umano ingegno ci portava verso uno scenario di magnifiche sorti e progressive? Ma perfavore…guardiamoci attorno.

Che cosa possiamo realisticamente progettare ce lo suggerisce François Jullien in “Una seconda vita. Come cominciare ad esistere davvero” edito da Feltrinelli. Il sottotitolo sembra quello di un manuale americano per il successo personale, non proprio azzeccato direi.

  • Vi risparmio spiegazioni pseudodotte su chi è Jullien per dirvi solo che ho saputo della sua esistenza da una mia studentessa che confidando nella vastità del sapere del suo professore di filosofia mi ha domandato: Prof, cosa ne pensa di Jullien e del suo modo di far dialogare le cultura orientali con quella europea? Alla domanda sono sbiancato perchè ignoravo chi fosse il filosofo in questione. In un attimo mi è passata di fronte tutta la mia vita, da quando mia madre mi portò a comprare il mio primo orsetto (primo ricordo, avevo 5 anni) in poi. Non trovando alcuna soluzione nelle strategie pregresse per evitare una brutta figura, ho ammesso la mia ignoranza con la studentessa (meglio ammettere la propria ignoranza che arrampicarsi sugli specchi in maniera rumorosa e indecente: non è una strategia vincente, ma onesta). Il giorno dopo comprai il mio primo libro di Jullien.
  • Faticoso l’inizio del saggio, un linguaggio non proprio immediato. “Questo scimmiotta un pò Heidegger, un pochino Martino Martini, con tracce di Marion e un pizzico di Levinas”. Mi dicevo inizialmente per mitigare la mia colpevole ignoranza. Poi però, andando avanti, ho capito quanto sono ignorante.

Il buon Jullien in realtà ti accompagna per mano, in poche pagine (circa 120) verso una lucidità, come lui stesso la chiama, che alcuni altri non sono in grado di darci parlando di un tema come la possibilità di riformare la nostra esistenza, se non in modo oscuro, retorico, moralistico o altisonante.

Di buoni propositi siam sempre pronti a farne e più si va avanti nella vita più restiamo uguali a noi stessi, commettendo sempre gli stessi errori. Forse sbagliamo con questa idea che ci vuole una cesura, un taglio, una diversità. Magari la soluzione sta nel guardare diversamente noi stessi e il mondo con una “illuminazione” diversa, liberata dalla drammaticità dell'”aut aut” o dalla epicità delle scelte fondamentali, così come dalla rassegnazione di restare quel che siamo.

  • Ecco allora alcune frasi di Jullien, tratte dall’ultimo capitolo, che possono fare bene al nostro ultimo giorno del vecchio anno o primo giorno del nuovo anno.

A partire dai piccoli spostamenti percepiti nel corso della vita, infatti, si può decidere lentamente di riformare la propria vita oppure di lasciarla andare nel suo corso continuando a rinviare. Abbiamo qui un’alternativa e, di conseguenza, una frattura riguardo ciò che in fondo è la scelta etica. Si può dispiegare passo dopo passo la propria libertà – che non è concessa in un colpo solo – attraverso inflessioni sempre più risolute, riflesse, a partire dalla vita passata; oppure ci si può compiacere ingenuamente nell’illusione di scegliere senza essersi dotati della capacità di farlo. Sprigionando la propria vita, ci si può “mantenere fuori” dalla chiusura del mondo – in senso proprio, “ex-istere”. Diversamente si può lasciare sprofondare la propria vita vincolandosi all’orizzonte basso di ciò che fa mondo. Ci sono le vite che si riprendono, le vite riformate, e le altre. Le nostre vite infatti si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori, in conformità al noto modello stoico, quanto di tenere gli occhi aperti sul negativo interno della vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni o sostituzioni. Di qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per un rilancio della vita e la possibilità di una seconda vita.