Sabbia sul marmo.

Sabbia sul marmo.

E se un santo, un attimo prima del martirio, invece di contemplare il paradiso facesse i conti con i propri vizi? E’ l’ipotesi di Joseph Tassone, giurista e capoufficio dei servizi funerari del Comune di Trento,  in “Sabbia sul marmo” (ViTrenD editore). L’opera immagina gli ultimi pensieri di Tommaso Moro, il quale, in attesa dell’esecuzione, non contempla le sue virtù ma si confronta con i sette vizi capitali. L’idea centrale del libro è un potente ribaltamento: Tommaso Moro, alla vigilia della morte, non contempla le virtù per cui sarà canonizzato, ma fa i conti con i sette vizi capitali.

A Tassone abbiamo domandato: da dove nasce l’urgenza di esplorare la fragilità di una figura così monumentale? 

Tommaso Moro era una persona dotata di grande ironia, e non esiste ironia autentica se non la si rivolge anche verso sé stessi. L’ironia non è sempre allegria; è un modo deformato di vedere il mondo, di avvertire il suo contrario. Ho sempre pensato ai grandi personaggi, a coloro i quali hanno raggiunto le vette di un ideale, sia esso di santità, sapere o politica. Dietro la facciata esiste un “intimo”, un “minimo”, un lato il quale al postero fa comodo dimenticare, essendo più facile celebrare le cose semplici. Immagino quest’uomo di saggezza e ponderazione, e non credo si sia fatto uccidere a cuor leggero. Il suo non fu un atto di eroismo nel senso corrente, ma di accettazione di una situazione in vista di un bene più alto: la coerenza con sé stesso. 

Nella sua biografia si legge che lei di professione è capo ufficio dei servizi funerari. Quanto di questa esperienza è confluito in un’opera che è meditazione di un uomo sull’orlo del sepolcro?

Il mio lavoro non può non aver confluito in quello che ho scritto. La malattia ti dà il senso della possibilità, la morte ti dà la certezza della fine. Questa consapevolezza ha influito di sicuro. Spesso, guardando le persone composte dopo la morte, immagino cosa abbiano pensato durante il gran salto. Quale sia stato l’ultimo pensiero. Poi sorrido, pensando: “magari hanno pensato che gli piace la marmellata”. Sarebbe un pensiero bellissimo con cui andarsene. Bisogna imparare il rispetto verso tutti i pensieri, soprattutto quelli in limine. Sulla morte rifletto da sempre, anche perché ne sono preoccupato. Quando mi hanno proposto il trasferimento ai servizi funerari, mia madre commentò: “Beh, lo sapevo io che tu prima o poi lì finivi”. Meglio di mio padre, il quale disse: “Ti abbiamo fatto studiare per quello?”. 

Lei ha una formazione da giurista.Il suo libro sembra un processo intimo, dove Moro è al tempo stesso imputato, avvocato e giudice di sé stesso. Questa struttura processuale della coscienza deriva dalla sua formazione?

Moro, in verità, si è già imputato prima di iniziare a scrivere; parte dal presupposto di aver attraversato tutti i vizi. Lui però non proferisce la condanna. Essendo un uomo aderente a quel credo, sa di non avere il diritto di condannarsi, così come non ha il diritto di salvarsi. Può solo concorrere al giudizio e affidarsi alla misericordia di Dio. Nel processo di confessione sacramentale, come diceva Dante, ci sono l’esame, la contrizione e il proposito. Lui l’esame lo sta facendo, ne è contrito. Per il proposito ha poca speranza, aspettandolo il boia il giorno dopo, ma non si condanna.

La scelta di Moro di non giurare è l’atto di disobbedienza civile per eccellenza. In un’epoca di polarizzazioni e conformismo come la nostra, che valore ha la sua testimonianza?

Di Tommaso Moro mi ha sempre colpito proprio questo: il silenzio. Non c’è un atto di ribellione, c’è una disobbedienza. Lui non giura e se ne sta dov’è. Il significato, trascendente la sua persona e la sua epoca, è la libertà di coscienza. Ma ciò che mi intriga ancora di più è la coerenza. Per quanto riguarda i vizi, i marinai cambiano mare, ma non cuore. L’uomo ha uno scheletro il quale resta uguale a sé stesso nello scorrere delle generazioni. La polpa intorno è fatta di eredità culturale, incontri, caso. Altrimenti perché continueremmo a portare, sul luogo in cui riposano i nostri cari, le stesse offerte delle popolazioni antiche? Oggi magari mettiamo un codice QR vicino alle tombe, lo inquadri e vedi il morto animarsi con l’intelligenza artificiale. A me non piace, ma cos’è questo se non una lunga lapide scritta da altri, con uno scalpello divenuto tecnologico?

(Articolo pubblicato sul quotidiano L’Adige il 13 luglio 2025)

Il dilemma dell’IA: tra futuro radioso e declino umano.

Il dilemma dell'IA: tra futuro radioso e declino umano.

Tra la promessa di un futuro radioso e il rischio di un’umanità disumanizzata: l’Intelligenza Artificiale ci pone di fronte a un bivio. Lunedì 3 marzo 2025 la Fondazione Bruno Kessler di Trento ha ospitato un seminario per discutere “Il ruolo dell’IA tra conservazione e trasformazione” che ha visto la partecipazione di Paolo Ercolani, docente di filosofia all’Università di Urbino e autore del libro “Nietzsche l’iperboreo. Il profeta della morte dell’uomo nell’epoca dell’Intelligenza artificiale” (Il Melangolo). 

L’avvento dell’Intelligenza Artificiale ha portato con sé un acceso dibattito sui suoi effetti sull’umanità. Ercolani sostiene che l’abuso di IA stia causando danni a livello cognitivo. Gli abbiamo chiesto di spiegarci meglio questa affermazione.

” Diversi studi evidenziano un calo del quoziente intellettivo medio della popolazione a partire dal 2009, anno di diffusione degli smartphone, e quindi di un accesso costante all’intelligenza artificiale. Per oltre cento anni, dal 1907 al 2009, il quoziente intellettivo medio era invece aumentato, grazie alla scolarizzazione, ai libri, ai giornali. Inoltre, in Italia il 40% della popolazione soffre di analfabetismo funzionale: sa leggere e scrivere, ma non capisce ciò che legge. E c’è un altro dato allarmante: la principale causa di morte tra i nativi digitali è il suicidio, un fenomeno mai verificatosi prima d’ora in questa fascia d’età. I giovani si dichiarano tristi, depressi, privi di speranza, imprigionati in una bolla alienante fatta di cellulari e social media, con la costante necessità di controllare il proprio smartphone e le proprie pagine social. Questa dipendenza li rende ansiosi, li fa sentire costantemente in vetrina, sotto giudizio, inadeguati. L’IA sta quindi contribuendo a una mutazione antropologica, con una degenerazione a livello cognitivo, emotivo e relazionale. È una generazione più sola, che paradossalmente, pur essendo la più “social” di sempre, smette di vedersi con gli amici in carne e ossa, preferendo restare a casa davanti al computer o allo smartphone. “

Il tema della conferenza di Trento è “Il ruolo dell’AI tra conservazione e trasformazione”. L’IA può avere un ruolo nella salvaguardia di valori e tradizioni?

“L’IA è un’invenzione straordinaria, probabilmente la più importante degli ultimi cento anni, con potenzialità enormi soprattutto in ambito medico ed economico. Grazie all’IA si può restituire la vista ai ciechi, la parola ai malati di SLA, si possono effettuare interventi chirurgici complessi, impossibili per un chirurgo umano. L’IA è anche il più grande business economico del nostro tempo, e lo sarà ancora per molti anni. Tuttavia, al momento è controllata quasi esclusivamente da privati, che mirano al profitto senza considerare gli effetti negativi. I social network, ad esempio, sono progettati per creare dipendenza, producendo sostanze chimiche come dopamina e ossitocina che danno piacere e assuefazione, come una droga. La politica dovrebbe intervenire per limitare e guidare questo fenomeno, ma purtroppo viviamo in un’epoca in cui la politica con la P maiuscola sembra essersi eclissata. “

Lei ha parlato di una “filosofia” dietro l’IA. Di cosa si tratta?

“Si tratta del transumanesimo, un movimento che mira a superare i limiti umani attraverso la tecnologia. I transumanisti si rifanno a Nietzsche e alla sua idea di superuomo, che vedono realizzato nei cyborg. Il loro obiettivo è creare un mondo divino in terra, il metaverso, dove saremo immortali, trasferendo le nostre coscienze e le nostre menti negli avatar. Non si tratta di visionari, ma di persone che investono milioni di dollari per realizzare questo progetto. Larry Page, il fondatore di Google, in un’intervista del 2019 a The Economist affermava di sapere già che non morirà. Lo stesso Elon Musk, lo scorso anno, annunciava che la sua società Neuralink aveva impiantato il primo microchip nel cervello di una persona. I transumanisti mirano a creare un nuovo tipo di umanità grazie alla bioingegneria. “

Questa visione transumanista la preoccupa?

“Come studioso, analizzo i fatti oggettivi e credo che ci sia da aver paura. La tecnocrazia si sta sostituendo alla democrazia, come dimostra l’influenza di figure come Elon Musk, che pur senza avere alcun incarico formale, siede di fatto alla Casa Bianca. La tecnocrazia sta sostituendo la democrazia “

Nel suo libro “Nietzsche l’iperboreo” lei propone una “risurrezione di Dio” come risposta a Nietzsche. Cosa intende?

“Nietzsche parlava della morte di Dio come crollo di valori e riferimenti, non si riferiva a un Dio specifico. Oggi rischiamo di deificare realtà umane come l’IA, dimenticandoci delle domande fondamentali sull’esistenza. Dobbiamo tornare a pensare in termini metafisici, riconoscendo che il divino, se esiste, è in un al di là e non può essere creato dall’uomo, come invece sostengono i transumanisti con il loro metaverso. Nietzsche voleva portare la metafisica sulla terra, e i transumanisti stanno realizzando il suo progetto. “

In che modo la riflessione teologica può contribuire a un uso responsabile dell’IA?

“La riflessione teologica e filosofica può aiutarci a mantenere uno sguardo critico sull’IA, evitando di considerarla una soluzione a tutti i problemi o una nuova divinità. Il mondo che è derivato dalla filosofia di Nietzsche è un mondo che ha visto regimi totalitari, bombe atomiche, inquinamento e sfruttamento del pianeta. Oggi, con il transumanesimo, stiamo assistendo all’apoteosi del nichilismo. Se vogliamo difendere l’umanità, dobbiamo tornare a pensare in termini metafisici. “

La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

La maschera della morte e il nomos della vita. Intervista a Luciano Violante.

Siamo circondati da un’indifferenza mortale: per Luciano Violante il vero male del nostro tempo è l’incapacità di affrontare il senso profondo della vita e della morte. 

Giurista, ex presidente della Camera e della Commissione antimafia, Violante ha dato inizio alla edizione 2004 dell’Agosto degasperiano (organizzato dalla Fondazione De Gasperi e il cui tema generale quest’anno è “Amare il nostro tempo”), sabato 27 luglio, con un intervento su “La maschera della morte e la legge della vita”, che è il sottotitolo del suo ultimo saggio “Ma io ti ho sempre salvato” (Bollati Boringhieri, 2024) dove scrive: “Non ci confrontiamo sul senso della morte perché non ci confrontiamo sul senso della vita”. 

Gli abbiamo chiesto quali cambiamenti sociali o culturali crede siano necessari per ricominciare ad affrontare il senso della vita e della sua “sacralità”?

“Sento molto parlare di dignità della morte, ma non di dignità della vita. C’è qualcosa di contorto nel nostro pensiero sulla contemporaneità. Dove di fatto siamo circondati dalla morte: ci sono circa cinquanta guerre in corso. Migliaia di persone migranti che muoiono in mare, nei deserti, per raggiungere un futuro migliore. Ma tutte queste morti le consideriamo “normali”: a volte si usa lo stesso termine, sui media, tanto per definire l’abbattimento di un edificio quanto per l’omicidio di una persona. In sostanza c’è una indifferenza nei confronti della morte da analizzare con attenzione e preoccupazione”. 

In che modo, come si vince l’indifferenza? 

“Bisogna andare ai fondamentali: la vita e la morte. Non la pace e la guerra che riguardano i “grandi decisori”. Vita e morte riguardano le persone. Bisogna fare una battaglia per la vita per poter mettere fine alle guerre. Mi colpisce molto lo slogan delle donne iraniane: donna, vita, libertà. Occorre dunque occuparsi di “bio-politiche”, di politiche per la vita. Bisognerebbe mettere assieme politiche dell’infanzia, della famiglia, della salute e del lavoro. Considerandole in maniera integrata, non separatamente. Tutto il contrario di quel che accade oggi in Italia: garantire una vita dignitosa è compito di ogni governo”. 

Quali insegnamenti possiamo trarre dalla tradizione classica e biblica per recuperare il senso della dignità della vita? 

“Sono un credente senza religione: ma se la lotta tra il bene e il male fosse già decisa a favore del bene che senso avrebbe la vita? Tutto sarebbe già prestabilito e orientato al bene. In realtà così non è: più volte nei Vangeli viene citata la presenza del satàn, in ebraico “l’accusatore”. Nell’ultima cena Gesù dice ai suoi che se ne andrà, ma il male resta con voi. E il senso della vita è proprio la lotta contro il male. Se si può dire: dobbiamo dare una mano a Dio. Come lui ha chiesto nell’Alleanza: possiamo costruire qualcosa assieme. Questo è il vero senso della vita. Dovremmo rifletterci di più ed essere coerenti”

Non rischiamo con questo una polarizzazione: credersi sempre dalla parte del bene non equivale alla radice di molti mali? 

“Condivido pienamente. Ma non penso ci si debba credere sempre dalla parte del bene: dico che è in atto uno scontro tra bene e male. Il bene è tra noi come il male. Il senso della vita è questa lotta per far vincere il bene. Non che esista  un bene assoluto da seguire ciecamente: non sono un seguace di Trump!”. 

Da poco è mancata sua moglie, Giulia De Marco: di fronte alla morte delle persone care se non si ha una fede religiosa, non si crede nell’immortalità dell’anima, come si può  restare razionali ed accettare la “fine” di chi si ama? 

“Credo in un’idea laica di sacralità: ciò che non è ripetibile ed è un valore, come la vita e la morte, è sacro anche per un laico. Intangibile e non manipolabile. Vita e morte non sono ripetibili, sono uniche. Dati essenziali della vita di una persona. Di qui una laica sacralità di questi momenti. Ne consegue un profondo rispetto della vita e della morte. Di fatto nella frenesia del nostro tempo la morte “interferisce sgarbatamente”: quando sentiamo che è morto qualcuno il fatto ci distoglie dalle nostre faccende quotidiane. Più di una volta mi è capitato di vedere mancanza di rispetto nei confronti della morte. In un passato anche recente la morte era qualcosa di importante su cui soffermarsi: un fatto sociale. Un riconoscimento della persona e della sua storia, dei suoi rapporti. Adesso la morte significa, quasi sempre, solitudine. 

Come ex magistrato e politico, come ha influenzato la sua percezione della morte il suo lavoro nella lotta contro la mafia, un contesto in cui la vita e la morte sono spesso in stretta vicinanza?

“Mi è capitato, per fortuna mia e adeguatezza degli altri, di essere vivo. Nonostante i vari tentativi per fermarmi. Quando si fa un lavoro in cui si crede, non si pensa da altro. Importante che chi ti è caro sappia che può accadere”. 

Parlando di amore del nostro tempo, tema dell’ Agosto degasperiano, quale aspetto del nostro tempo ritiene più amabile e utilizzabile nella costruzione di una società più giusta e umana? 

“Il nostro è il tempo della scoperta, della ricerca e delle novità: questo è l’aspetto che amo della nostra contemporaneità. Penso allo spazio, alla ricerca in medicina, alle innovazioni digitali. Vedo però una certa propensione al conflitto che non mi piace: la tendenza poi a risolvere i conflitti con le punizioni e le aggressioni. La guerra è tornata ad essere lo strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Le diplomazie non esistono più”. 

Alcide De Gasperi è stato figura centrale nella costruzione della democrazia italiana. Quali aspetti del suo pensiero politico ritiene più rilevanti e attuali per affrontare le sfide contemporanee?

“Sono diventato  un grande ammiratore di De Gasperi, dopo averlo studiato: in una situazione di grande difficoltà in cui il Vaticano, l’ambasciata americana e altri gli chiedevano di mettere al bando comunisti, socialisti e sindacati, lui si è sempre rifiutato di attuare misure liberticide. E’ stato un vero garante dei valori costituzionali. Unico errore è stata la legge del ‘53: il maggioritario ha sottratto voti a chi li aveva guadagnati e questo nella cultura dell’epoca non era accettabile. De Gasperi però, senza piantare bandiere, ha sempre difeso la laicità della Repubblica, nello scontro con Pio XII. La cosa importante di De Gasperi è che non voleva dividere il suo Paese: aveva a cuore unità e coesione, non la vittoria del suo partito. Si competeva per governare, non per vincere”. 

(Intervista pubblicata sul quotidiano L’Adige il 27 luglio 2024 link al PDF della pagina) .

Vite ferme e storie di migranti in attesa.

L’invisibilità non paga. I tagli sulla accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non solo sono modi  per non far integrare i migranti, ma sono anche antieconomici. E’ quanto emerge da uno studio sociologico, in forma di narrazione, scritto da Paolo Boccagni, professore ordinario di sociologia all’Università di Trento. “Vite ferme” (Feltrinelli)  è il titolo del saggio, nato dopo una lunga e paziente permanenza in una residenza per migranti. 

A Boccagni abbiamo chiesto quali sono state le sfide e le scoperte più significative durante questo processo

“Vite ferme nasce dal tempo che ho avuto il privilegio di trascorrere in un centro di accoglienza, da ospite di chi vi veniva ospitato. Grazie ai migranti e agli operatori ho potuto avvicinarmi all’esperienza della vita in attesa, in una “bolla” di protezione che risponde ai bisogni primari ma non all’esigenza di costruire nuovi progetti di vita, oltre l’incertezza del presente. Di cose ne ho scoperte parecchie. Una, forse non banale, è che sapevo poco delle storie e delle vite di queste persone. Ci sono ostilità, discriminazioni e pregiudizi, ma anche la fatica delle sofferenze vissute, delle aspettative disattese, della vita da rifare. C’è tanto tempo vuoto, potenzialmente a disposizione, e pochissima possibilità di controllarlo”. 


Quali raccomandazioni emergono dal suo lavoro per affrontare meglio le sfide dell’integrazione?

“Il libro non parla di immigrazione in senso stretto. E’ una raccolta di storie di vita di giovani uomini, per lo più neri e africani, che sono anche richiedenti asilo. Nasce dall’idea che mettere al centro l’umanità di ciascuno, e i contorni della vita quotidiana di tutti, possa ridurre qualche distanza e sgretolare qualche schema preconcetto. Vite ferme ha un taglio deliberatamente narrativo, più che “prescrittivo”. Chiunque lo legga, però, credo potrebbe arrivare alla stessa conclusione: i tagli sull’accoglienza e la segregazione residenziale dei richiedenti asilo non fanno risparmiare. Magari illudono di spendere meno e raccogliere qualche voto in più, ma ci mettono poco a creare più marginalità, più rischi di devianza (e di relativa repressione), meno senso di umanità e più paura, noia, solitudine. L’invisibilità non paga. Le persone migranti non se ne andranno soltanto perché si cerca di tenerle fuori dal quadro della vita collettiva. Al massimo staranno peggio di prima e contribuiranno, nel loro piccolo, a far crescere l’ansia, l’incertezza e il rancore di tanti, di tutti i colori di pelle”.

Quali miti o stereotipi sul fenomeno migratorio si possono sfatare attraverso il suo lavoro?


“Mi piacerebbe che il libro contribuisse a far vedere le persone e le loro storie, prima delle etichette che portano o dei problemi che hanno. C’è un certo grado di attenzione pubblica, con molte oscillazioni emotive, per gli sbarchi, ma poco o nulla su quello che succede dopo – l’inizio di una nuova vita che, purtroppo, non sembra troppo diversa da quella vecchia. Il mito che vorrei sfatare è l’esistenza stessa del “fenomeno migratorio” come entità a se stante: una massa indifferenziata, minacciosa, ontologicamente diversa dalla popolazione locale. Esistono, invece, percorsi e incroci di persone che, anche quando portano con sé paure, povertà e progetti di famiglie e comunità intere, hanno una loro soggettività. Ogni stanza del centro ospita una storia che non si sovrappone automaticamente con tutte le altre. Sono persone per lo più giovani che inseguono gli stessi sogni e modelli di tanti loro coetanei, con diritti, risorse e opportunità radicalmente inferiori.  


Qual è il ruolo della ricerca accademica nel contesto attuale delle politiche sull’immigrazione?  

“La ricerca scientifica ha sempre faticato ad avere voce nelle politiche sull’immigrazione, e oggi più che mai. Ci sono differenze di linguaggi, di culture (tutti i populisti del mondo diffidano degli intellettuali), di orizzonti temporali (la ricerca illusoria di soluzioni pronte per l’uso), per non parlare dell’incapacità di molti ricercatori nel farsi capire fuori dalla propria bolla. In questo come in tanti campi, le politiche pubbliche soffrono lo iato tra i tempi brevi del consenso, dei media e delle carriere politiche, e i tempi lunghi di qualsiasi investimento in una società migliore. Trovare luoghi e canali di comunicazione rilevanti per tutti, che scardinino la divisione ideologica e insensata tra “favorevoli” o “contrari” all’immigrazione a partire da vissuti comuni, può contribuire a indebolire la barriera tra accademia e politica. Non per dare raccomandazioni, ma per invogliare a guardare le cose fuori dai quadri mentali in cui ci adagiamo abitualmente”.

Come pensa che la società e le istituzioni potrebbero migliorare l’equità e l’inclusione per le comunità migranti?


“I percorsi di accoglienza sono incerti e complessi per definizione. Per definizione, però, la protezione internazionale non è una gentile concessione umanitaria, ma un diritto. Lo sviluppo delle politiche degli ultimi anni, nazionali e locali, l’ha ridotta all’osso, come in una profezia che si autoavvera. Si dice che gli immigrati sono incapaci di integrarsi, dopo che si sono create tutte le condizioni perché l’integrazione fallisca. La realtà, nel centro di Vite ferme e in tanti altri posti simili, è diversa. Nonostante la marginalità, la sofferenza e la povertà, chi ce l’ha fatta fino a qui è resiliente, volitivo, capace di sacrificarsi per tendere a una vita normale – non così penalizzata dall’angolo della terra in cui è nato. Ci sono criticità importanti, nell’accesso al mercato abitativo e del lavoro oltre che ai servizi, che hanno bisogno di tempo e di amministrazioni pubbliche più illuminate, nell’interesse di tutti. E c’è, dentro e fuori le istituzioni, la vita reale di chi tesse relazioni, accompagna, insegna, rivendica. E’ dalle iniziative dal basso, e dalla capacità di partecipare agli spazi pubblici in forme di sociabilità inclusiva, che ci possiamo aspettare di più in questi anni. Difficile avere grandi aspettative verso le politiche pubbliche, fino a che il vento del nativismo (con tutte le crisi che lo nutrono) continuerà a soffiare così forte”.