Da simbolo a icona: ovvero la carne al tempo di internet ha perso il suo significato profondo, quello tradizionale, fatto di riti e tradizioni, ed è diventato un’icona, infinitamente riproducibile, quasi virtuale. “Del mangiar carne” è il titolo del seminario, organizzato dallo zooantropologo e veterinario Giuseppe Pallante, con il patrocinio della Regione Trentino Alto adige, Il Muse e il contributo della Azienda agricola Foradori, che si è tenuto venerdì 24 marzo presso Il Muse (sala convegni). Sono intervenuti Elia Richetti, rabbino di riferimento per il Trentino e Alto Adige, Massimo Montanari, dell’Università di Bologna, Yahya Sergio Yahe Pallavicini, (Direttore Comitato Etico Halal Italia, COREIS Comunità religiosa islamica italiana), Massimo Giuliani (Università di Trento) Roberto Marchesini (Centro Studi Filosofia Postumanista) e Francesco Sinni (Fotografo Freelance – Pisa).
“La caratteristica della parola carne è di essere un simbolo trasversale – ci ha spiegato Pallante – in qualsiasi contesto religioso, filosofico o etico ha un significato che va oltre la sua rappresentazione. Pensiamo solo alla “carne di Cristo”. Inoltre a livello umano la discriminante che ci ha resi onnivori è stato il fatto di mangiare carne: fa parte del nostro processo evolutivo. A prescindere o meno dalla volontà e consapevolezza di mangiare carne siamo ad essa legati”.
Perché a suo avviso nella cultura occidentale attuale molti scelgono di diventare vegetariani o vegani? “Ho paura che in diversi casi si tratti di una banalizzazione. Ci sono due estremi: da una parte vediamo un consumo eccessivo di carne, senza alcuna consapevolezza del suo valore e dall’altra può esserci la radicalizzazione appiattita ed estremista del suo rifiuto per motivi salutistici, senza la costruzione di un’etica specifica. La carne, proprio perché simbolica, è identitaria. Se al suo rifiuto corrisponde una consapevolezza, come accade in alcune religioni o per determinati periodi di tempo, va benissimo. Altrimenti è un appiattimento semplificatorio dove consumo e rifiuto della carne si equivalgono perché non hanno motivazioni forti a loro sostegno”.
Per mangiare carne occorre uccidere: si può giustificare quella violenza? “Chi compra la fettina di carne incellophanata dimentica che si tratta di un animale. Il problema non è evidenziare o giustificare la crudeltà, ma dare un senso ad un gesto che può rimandare a motivazioni religiose, identitarie, che costruisce relazioni. Non dimentichiamoci che è il mangiare carne che costruisce “socialità”: l’erbivoro magia da solo. Il carnivoro deve cacciare insieme agli altri e poi consumare e condividere il pasto. Oggi però siamo passati dalla carne simbolo alla carne icona: il primo contiene dei valori, rimanda a delle tradizioni, dei riti. L’icona invece è l’immagine infinitamente riproducibile, come nelle opere di Andy Warhol. Una percezione superficiale che nulla dice o pensa del contenuto profondo. Il simbolo parte da lontano: l’icona è ferma sul presente, non ha passato e non può generare futuro”.
Anche la carne, ai tempi della globalizzazione e delle interconnessioni della rete è diventata virtuale? “La carne ci ha permesso, all’epoca in cui siamo scesi dagli alberi ed abbiamo smesso di essere solo erbivori, di mangiare in modalità sociale. Di condividere la preda cacciata. Oggi siamo vicini alla fabbricazione dell’hamburger in laboratorio. Ma anche in questo caso emerge la nostra necessità di essere legati alla carne: i vegetariani mangiano comunque hamburger anche se vegetali, salami “vegetali”. Il legame con la carne, almeno nella forma, resta. Viene surrogato un bisogno che comunque resta vivo nelle profondità”.
Pubblicato su L’Adige del 23 marzo 2017